Passa ai contenuti principali

UGO E IL SUO CAMPETTO DI PATATE - UNA SEMPLICE MA EFFICACE FORMA DI RESISTENZA RURALE



Agosto è il mese della raccolta delle patate, ma quando la stagione metereologica non mantiene un andamento ottimale, in quanto a umidità, sole e acqua, l’operazione tanto attesa dalle famiglie contadine può protrarsi anche sino alle prime settimane di settembre. Quest’anno mio fratello ne ha raccolto una grande quantità in poco spazio: lo si vede dalle fotografie che mi ha inviato alcuni giorni fa, entusiasta del suo lavoro e orgoglioso come sempre dei risultati ottenuti. Le ha coltivate a circa mille metri di altitudine, ai margini del suo praticello sö a Stalì, la località di monte dove da un’antica stalla semidiroccata ha ricavato una sin troppo lussuosa abitazione: lassù egli vive abitualmente l’estate, con lo sguardo vigile sul Resegone, svettante proprio lì di fronte, quasi a tiro di schioppo. Prima di dedicarsi alla caccia, ormai imminente - l’area circostante al capanno si presenta linda come un giardino tagliato a raso - ha raccolto le patate, che aveva piantato, circa quattro mesi or sono, nelle due o tre còle ben allineate in fondo al prato ottenute con l’aggiunta di terra, di fresca movimentazione, non compattata né argillosa, per dare possibilità ai preziosi tuberi di crescere e espandersi nel sottosuolo, lì a portata di mano, a nemmeno una spanna dalla superficie. Quelle file di piante di patate sono state per mesi oggetto di quotidiane attenzioni, soprattutto durante le ultime settimane, quando cioè le foglie incominciavano a ingiallirsi e i gambi ad afflosciarsi chini sul terreno, perdendo l’originaria chioma rigogliosa e dal colore verde intenso. Non è sempre facile proteggere quelle piantine dall’attacco pericoloso di bàe e lomagòcc, che soprattutto in certe annate sembrano avere il sopravvento. L’esito della raccolta non è mai scontato, e poi le patate non si vedono, poiché crescono sotto terra: ancora oggi il metodo migliore per capire la loro consistenza e valutare se si possono cavare, è quello di effettuare alcune campionature, estirpando una o due piante qua e là, in modo tale da verificare il livello di maturazione dei tuberi. Certamente ha fatto così anche Ugo, prima di procedere al loro disseppellimento. Da un primo esame sensoriale, soprattutto della vista e del tatto, ci si rende subito conto circa la qualità del prodotto; gli anziani accertavano definitivamente la maturazione della patata strofinandola sulla braga de föstàgn: se la buccia non veniva via, voleva dire che le patate erano pronte per essere dissepolte. Quest’anno mio fratello è soddisfatto della raccolta e presenta le sue patate ancora distese sulla nuda terra, da poco rivoltata col forcone a denti stretti, per portare in superficie il frutto nascosto, facendo attenzione a non romperlo. Prima di utilizzare la vanga a forca, oppure la zappa, Ugo estirpa la pianticella con la mano, creando un piccolo cratere nel terriccio e mettendo in luce la maggior parte dei tuberi ad essa collegati, certamente i più consistenti: ad ogni azione si rinnova la curiosità di scoprire quel tesoro che si cela sotto la terra di ciascun gambo. Solo successivamente il nostro paziente contadino rivolta per bene tutto il terreno circostante, per ricercare e portare alla luce anche i patatì più nascosti e di piccole dimensioni. Non tutti i giorni sono buoni per la raccolta: occorre che il terreno non sia bagnato o umido e che la luna sia in fase calante, quindi nel periodo di riposo della natura. Dopo averle fatte asciugare, lasciandole depositate all’aperto, al riparo dalla pioggia e possibilmente anche dai raggi solari diretti, con le mani Ugo le ripulisce una alla volta, mondandole dell’ultimo terriccio rimasto appiccicato e ormai rinsecchito, prima di riporle in cassette bene accatastate nella sua cantina, a fianco delle cipolle, anch’esse ottenute nel suo orticello di monte. Tempi addietro venivano conservate in sacchi di iuta al buio e al fresco nel fundì, poiché il calore può far germogliare anzitempo i tuberi. Le patate, infatti, sono sempre state particolarmente sensibili sia alla luce che al calore. Ora sono pronte per essere impiegate in cucina e la brava e previdente massaia non esita, di volta in volta, a prepararle lesse, fatte bollire nel brodo di una bella gallina ruspante, oppure preparate in arrosto nel forno con cudighì e costìne, tuttalpiù in insalata, condite assieme all’uovo sodo. Il purè di patate è sempre stato un contorno classico della cucina tradizionale, abbinato solitamente alla carne (quando c’era) e alimento preferito per ammalati e puerpere. Ol Tata, invece, era solito mettere una bella patata sul bernàs, per ricoprirla dentro la brace viva del camino: una volta cotta, ancora bruciante di calore, la faceva saltellare da una mano all’altra, per non scottarsi, cercando nel frattempo di sbucciarla, per consumarne il suo contenuto, seduto nella nécia dol camì con accanto il suo immancabile pistù de ì. 



Una buona scorta di patate, nelle famiglie contadine di un tempo, costituiva una solida garanzia per trascorrere in serenità la stagione invernale, dopo aver messo al sicuro i principali bisogni alimentari. Quando ancora il cibo costituiva il frutto del lavoro diretto e responsabile della terra, ciascun piccolo coltivatore si adoperava in prima persona per mettere in atto, nel migliore dei modi, le proprie tecniche sperimentali, che costituivano un segreto e ampliavano il patrimonio di conoscenze del gruppo parentale. Assai eloquente è l’immagine di nonno Anselmo - nel film L’Albero degli zoccoli di Olmi - un ingegnoso e saggio contadino che, sempre guardingo, aveva trovato il sistema (sostituendo il concime: lo sterco di gallina, anziché il letame di vacca) di far maturare i pomidori un mese prima degli altri. Anche il più piccolo e decentrato siülì poteva diventare utile allo scopo produttivo. La coltivazione della patata, diffusasi sulle Orobie all’inizio del secolo diciannovesimo, rappresentò una vera e propria rivoluzione alimentare, destinata presto a introdurre nuove centralità produttive, accanto a quelle già conosciute della castagna, del sorgoturco e degli altri cerali minori, oltre ovviamente al frumento, la cui coltivazione rimase però limitata ad alcune aree della bassa montagna. Sino a tutta la prima metà del Novecento, ma in alcune aree anche nei lustri successivi, il mito della proprietà della terra era alla base delle rivendicazioni sociali delle masse popolari e le prime fasi dell’emigrazione di massa all’estero si sono configurate strettamente connesse ai processi di colonizzazione e assegnazione delle terre nel continente latino-americano, soprattutto in Brasile. Il “Sogno americano” aveva alimentato vere e propri leggende, che passavano di bocca in bocca, venivano trasferite di stalla in stalla dai racconti popolari del Tata, secondo alcune delle quali, ad esempio, nella Mèreca le patate si piantavano la sera e si raccoglievano subito il giorno dopo… a “cariolate”. Per di più grosse come zucche! Il bisogno di sicurezza alimentare, più volte infranto e disatteso, aveva fatto crescere all’intorno, nell’immaginario popolare, aspirazioni senza precedenti. L’incremento demografico registrato nel diciannovesimo secolo e alcune grandi carestie che lo caratterizzarono, come l’anno senza estate del 1816, chiamato anche l’anno della grande povertà, che mise in ginocchio i raccolti di tutta l’Europa settentrionale, pregiudicò seriamente l’esistenza delle famiglie rurali e la crisi si sopravvivenza alimentare minacciò seriamente tutto il mondo occidentale. La patata, che prima di allora, nonostante fosse già conosciuta, era stata relegata a pianta ornamentale e i suoi tuberi alimento per i maiali (i cibi provenienti dal sottosuolo erano considerati dalla superstizione portatori di effetti malefici), gradualmente si impone sulle tavole di contadini: la fame e la sottonutrizione li spinge a cibarsi anche di questi tuberi, che si rivelano improvvisamente una straordinaria riserva alimentare. L’introduzione della patata assume presto una dimensione massiva e non c’è stato contadino che abbia rinunciato a riservare a tale coltura alcune sée del proprio pur modesto possedimento montano. Diverse aree vengono così sottratte al prato stabile per ospitare campi di patate. Proprio nell’Ottocento subiscono un notevole incremento le aree terrazzate, ottenute sui versanti con muri a secco o a mezzo di cigli erbosi, le quali costituiscono la parte campiva o a vanga del contesto rurale più produttivo e meglio esposto al sole. Il volto dei luoghi, soprattutto quello delle dorsali inclinate ed esposte a mezzogiorno, subisce un profondo cambiamento. L’incremento della popolazione ha richiesto pure un aumento delle aree produttive, sottratte al bosco, al pascolo o al prato, in grado di soddisfare bisogni alimentari in continua crescita. 



In montagna la coltivazione delle patate, per lo più rivolta al soddisfacimento di bisogni alimentari della famiglia, è ancora oggi una pratica assai diffusa: i piccoli produttori locali, durante le scorse settimane, hanno aperto un confronto circa l’esito dei rispettivi raccolti. Come i pomidori di Anselmo, anche le patate di Ugo sono il frutto di una particolare e personale relazione del contadino con la propria terra, nella continua ricerca, condotta a volte in gran segreto, delle sue migliori e attese espressioni. Mio fratello è decisamente soddisfatto e le sue patate, per la maggior parte bianche, alcune rossicce, sono esposte in bella mostra nelle fotografie da lui stesso scattate. Non so dell’esistenza di eventuali specie autoctone in valle – come invece è avvenuto in altre zone della Bergamasca, come per la patata di Rovetta o quella di Martinengo – e in questi ultimi lustri le patate destinate alla semina vengono di anno in anno acquistate per la maggior parte dal Consorzio Agrario o presso alcuni commercianti locali. Le generazioni passate erano solite accantonare una parte del raccolto, che sarebbe stato utilizzato per la semina dell’anno successivo, applicando così la stretta formula del risparmio, e all’esiguità del prodotto si suppliva incrementandone la quantità. Come pure non so dire se la patata coltivata in montagna abbia caratteristiche diverse da quelle prodotte nelle colture intensive della Bassa, ma certamente la coltivazione senza l’ausilio di fertilizzanti chimici o di prodotti fitosanitari, soprattutto la fatica e la relazione costruita dal piccolo agricoltore giorno dopo giorno con il proprio campetto, attribuiscono a quei tuberi, quando giungono cotti sulle nostre tavole, il sapore di tutto il territorio, restituendo al contadino innanzitutto la gioia di poter godere di una sua “creazione”. Colture massive e assai estese, come quella della patata, diffusesi rapidamente per supplire a carenze alimentari, entrate a far parte a pieno titolo della tradizione produttiva e alimentare del territorio, attualmente rispondono a esigenze di altra natura. Ugo, e come lui diversi altri conterranei, con i loro piccoli campetti mantengono un legame stretto con la propria storia sociale ed economica, alimentando la tradizione millenaria tra cibo, territorio e lavoro diretto e personale, valorizzando i processi artigianali di produzione e il contenimento dei consumi esterni. I vistosi processi di industrializzazione e delocalizzazione del sistema alimentare hanno introdotto, a costi sostenibili, anche nei contesti rurali più periferici, prodotti provenienti da molto lontano e l’omologazione del gusto, cui siamo stati progressivamente abituati, ci porta molte volte a escludere dalle nostre tavole i cibi genuini del territorio, i quali costituiscono invece la maggior garanzia per la percezione e la salvaguardia delle identità alimentari della tradizione locale. In questo senso anche il semplice campetto di patate, così ben coltivato e amato, diventa una formidabile pratica di resistenza rurale, non più imposta da condizioni di difficoltà economica, bensì quale libera espressione personale del montanaro diretta al mantenimento di relazioni operose e proficue con l’ambiente vissuto, praticato e modellato dalle molteplici azioni della vita quotidiana e da una visione complessivamente positiva del contesto circostante. Non è poco…



Commenti

Posta un commento

Post popolari in questo blog

ADDIO LUGANO BELLA...

Fuipiano Valle Imagna, contrada Arnosto, anni '60. Centro Studi Valle Imagna, Archivi della Memoria e delle Identità. Fotografia di Rinaldo Della Vite In questo periodo, spesso senza accorgermene, mi ritrovo a canticchiare o a fischiettare la nota canzone anarchica Addio Lugano bella...   Ogni riferimento ideologico rischia di essere oggi fuorviante. Restano, però, i comportamenti, che si ripetono nella storia, e le tensioni imperscrutabili dell’animo.  Un pensiero costante, come un tarlo, mi ronza per la testa: l'inspiegabile atteggiamento di chiusura della nuova Amministrazione di Fuipiano nei confronti del Centro Studi Valle Imagna. Un affronto dietro l'altro. Dapprima la bocciatura del programma Berghemhaus , poi il “sequestro” dei nostri libri depositati da anni in alcuni locali non utilizzati messi a disposizione dal Comune. E non è finita qui. Ora partono gli attacchi personali.  Ritorna, a bassa voce, il motivo musicale: … Cacciati al par dei malfattori ....  “Lice

RACCOLTA DI DIVERSI RIMEDJ A VARJ MALI - UN RICETTARIO LOMBARDO DI MEDICINA POPOLARE DEL DICIOTTESIMO SECOLO - IL NUOVO LIBRO DEL CENTRO STUDI VALLE IMAGNA

Frontespizio della prima raccolta di Rimedj . Un caro amico si è scandalizzato (o ha fatto finta di esserlo), leggendo l’ultimo post in cui si annunciava l’imminenza del nuovo libro A catàr la cucagna sull’emigrazione bergamasca in Brasile nella seconda metà del diciannovesimo secolo, per il fatto che il processo di colonizzazione di ampi territori dell’America latina, come è successo anche negli Stati Uniti, è avvenuto contestualmente alla distruzione delle culture preesistenti degli indigeni - indios e indiani - perseguita anche attraverso l’eliminazione fisica delle popolazioni native. I primi coloni hanno introdotto il concetto di proprietà privata, costruendo recinzioni e alzando steccati per impedire a chiunque l’accesso nei fondi loro assegnati, mettendo in atto misure anche drastiche per la difesa dei nuovi confini. Le autorità centrali hanno promosso e sostenuto il processo di colonizzazione non solo per sfruttare ampie porzioni di territorio ancora inesplorate, ma soprattutt

PIZZAIOLO, COLLEZIONISTA E INSTANCABILE ANIMATORE DELLE VICENDE DELLA SUA VALLE

Stefano Frosio Stefano non è solo un bravo pizzaiolo, comproprietario, assieme ai suoi fratelli, di uno spazioso esercizio pubblico situato proprio nel centro della Felìsa , dove con una certa regolarità metto le gambe sotto il tavolo per gustare una prelibata pizza accompagnata da speck e stracchino (quello nostrano, prodotto dai nostri allevatori di monte), alternata all’immancabile Fumata Bianca, farcita con diversi ingredienti. Una vera esplosione di sapori alpini e mediterranei. I meno giovani sanno che questa pizza è stata voluta alla memoria di Dante, suo papà, per non dimenticare quando, la mattina del 28 ottobre 1958, dalla stufetta istallata in prossimità dell’abitazione del noto fotografo della Valle Imagna, ma in luogo accessibile e visibile da tutti, fuoriuscì il fumo bianco: da quel momento ol Capelù - così la popolazione della valle lo aveva soprannominato, in relazione al suo vistoso cappello nero a larghe tese – ha iniziato ad annunciare a gran voce l’imminente elezio