Mi
è stato chiesto come mai la proiezione, in anteprima assoluta, del
film-documento L’ultimo bergamino, che
dà il via alla transumanza bovina da Bergamo a Gorgonzola - un evento d’impatto
non trascurabile, in programma dal 30 settembre al 4 ottobre 2020 - sia stata
organizzata nella chiesa parrocchiale di Fuipiano. La scelta non è stata
casuale, se solo pensiamo alla cultura zoo-casearia che gli abitanti del
villaggio posto sul tetto della valle, in posizione dominante, hanno sviluppato
nel passato. L’altitudine sopra i mille metri e la conseguente difficoltà a
praticare l’agricoltura, la presenza di consistenti praterie montane e la
vicinanza alle aree a forte tradizione bergamina di Morterone e della Valle
Taleggio hanno influenzato nei secoli scorsi diverse attività pastorali,
connesse soprattutto all’allevamento bovino e alla lavorazione del latte per la
produzione degli stracchini. Non è un caso che, a quegli abitanti sul monte,
sia stato attribuito il soprannome di boassèr,
un epiteto, diventato elemento onomastico collettivo, rivelatore della
condizione sociale di chi vive in mezzo alle vacche ed è costretto a volte,
soprattutto nelle stalle ristrette di un tempo, a calpestare le boàsse, oppure a diffonderne l’odore,
rimasto impresso come un marchio sulla pelle. Ogni comunità aveva il proprio scotöm, ma quella curiosa geografia politica
e socio-economica di un tempo oggi è stata pressoché dimenticata. Basta
sfogliare il Registro della popolazione in uso nella seconda metà
dell’Ottocento, conservato in Comune, per cogliere la distribuzione delle
famiglie estese nel villaggio e la rispettiva caratterizzazione economica e
professionale, che si trasmetteva con un certo automatismo da padre in figlio,
secondo una linea già tracciata dalle antiche tradizioni. Molti capi famiglia
delle contrade Arnosto e Braga risultano “malghesi” o “mandriani” - sono questi
i termini utilizzati dai compilatori dell’anagrafe - mentre altri sono indicati
quali “contadini”: non che i bergamini non fossero anche contadini o possidenti
(nell’accezione di piccoli allevatori stanziali), ma il cursore municipale probabilmente
ha messo in evidenza il carattere professionale prevalente. Locatelli (Tàmbe, Pàola), Invernizzi (Tàrde, Bràca, Scarpulì, Polénte), Pretalli
(Botazöl, Fuì), Rota, Manzoni,… sono famiglie
di nota fama bergamina, che in Arnosto convivevano con diversi gruppi di
muratori, caratterizzati da una ulteriore specializzazione nel campo delle
costruzioni delle opere di edilizia rurale, dove però le donne della casa non
mancavano di allevare qualche vacca, con i vitelli e il maiale. Ci troviamo di
fronte a strutture parentali complesse, molte delle quali estese, soprattutto
quelle dei bergamini, le cui attività zoo-casearie richiedevano una
molteplicità di interventi e di competenze. La predisposizione della
popolazione all’esercizio delle attività pastorali era talmente radicata e
diffusa al punto che ogni famiglia possedeva una o più stalle dove allevare il
proprio bestiame di proprietà e attendeva ai vari lavori nei prati, pascoli e
boschi. Cultura della storia, cultura della pietra, cultura del latte e dello
stracchino, cultura dell’ambiente sono anche i principali capisaldi del
programma “Berghemhaus. Animazione culturale e promozione dell’accoglienza
nello spazio rurale della contrada Arnosto”, all’interno del quale è stato
concepito anche il fil-documento L’ultimo
bergamino.
Paul Scheuermeier, linguista e ricercatore elvetico, durante la sua visita in Valle Imagna negli anni Venti del secolo scorso, per la precisione nel mese di settembre 1927, alla Felìsa intercettò e documentò proprio la famiglia di Pietro Invernizzi, proveniente da Fuipiano, durante la transumanza alla Bassa, con armenti e carro al seguito, consegnando alla storia documenti fotografici di straordinario valore. Da Fuipiano transitavano pure le mandrie bovine che scendevano dalla Costa del Palio e provenienti dalla Valle di Morterone, soprattutto quelle dirette verso la cintura rurale a Est di Milano o nelle cascine della piana lombarda orientale, seguendo le aste fluviali del Serio e dell’Oglio. Non va trascurato il fatto che la via di comunicazione a occidente, da Morterone in direzione di Ballabio, è sempre stata assai impegnativa e alquanto disagevole per il transito dei quadrupedi. Fuipiano, nel passato, ha rappresentato un vero centro di irradiazione della civiltà dei bergamini, un punto di riferimento anche per gli allevatori situati negli altri villaggi della Valle Imagna. Nelle contrade c’erano i diversi servizi di retrovia della linea dell’alpeggio distribuita tra la Costa del Palio e Pralongone, dove l’estate si stanziava la famiglia dei bergamini, con bambini e anziani, mentre gli uomini erano impegnati sull’alpe per accudire e sorvegliare il proprio bestiame: quelle antiche case di pietra fungevano da base per i principali rifornimenti alimentari, da ambito domestico dove curarsi durante le malattie più gravi e presso il quale si vivevano i principali eventi della famiglia bergamina. Dalle contrade salivano regolarmente sull’alpe i mulattieri per ritirare gli stracchini, i sensài per favorire accordi, scambi e compravendite, il parroco a benedire le cascine, anche quelle più avanzate in quota, ma pure gli incaricati della municipalità per verificare se il carico di bestiame nei pascoli pubblici assegnati coincideva con quello dichiarato. Nelle contrade, poi, distribuite su un ampio fronte ai piedi degli alpeggi, operavano le condotte del medico, dell’ostetrica e del veterinario. Mentre la fascia dei pascoli costituiva la linea più avanzata dell’occupazione del territorio e si confrontavano gli interessi economici dei vari gruppi parentali - lassù molti bergamini vivevano spesso in solitudine, in ripari provvisori nelle stalle di monte, per non perdere mai di vista le proprie vacche - le contrade del villaggio erano centri di intensa vita comunitaria. La stessa famiglia dei Ghélme - di cui Carlì, il protagonista del documentario, fa parte – possiede tuttora aree prative e pascolive sul versante a mezzogiorno della Costa del Palio e di Pralongone, mete privilegiate per l’alpeggio estivo, praticato anche dal nostro Bergamino durante la sua infanzia e adolescenza: una scena del film lo ritrae mentre risale con grinta il ripido versante del Palio, in cerca di un ambiente umano, quello dei primi anni spensierati della sua giovinezza, che non ha più ritrovato. Ha visto molte case e stalle diroccate, mentre di altre ormai non è rimasta traccia, se non poche pietre; all’intorno i pascoli si sono notevolmente ristretti e la linea del bosco è avanzata a vista d’occhio; arbusti e diverse èrbe mate rendono attualmente ormai inospitali diverse porzioni di territorio.
Fuipiano, nella valle dominata dal Resegone, è stato nel passato il villaggio per antonomasia dei bergamini, come quello dirimpettaio di Costa, sul versante opposto della valle, lo è stato per i commercianti ambulanti. Due forme di migrazione determinata dalle condizioni di luogo. Il caro amico Costantino Locatelli, classe 1915, ci ha consegnato alcune preziose testimonianze, tratte dalla memoria della sua infanzia, quando nella scuoletta di Bransiù si agitava e le stàa piö en dol bànc, attirato al suono dei campanacci bergamini che risalivano la valle, diretti a Fuipiano, per raggiungere poi la Costa del Palio. In particolare la sua attenzione cadeva sul ciùcio, l’asinello di retroguardia: “Lo vedevamo all’inizio dell’alpeggio, in coda alla mandria, quando questa, dalla pianura, era accompagnata dapprima sulla strada de Locadèl, poi come grosso biscione snodantesi per la mulattiera de Foppià, fino ai verdi pascoli della Piàca e di Morterù. […] Veniva avanti come rassegnato sotto un carico strano: dal basto pendevano le povere masserizie del mandriano, il grosso secchio per il latte, ol scagnì per la mungitura, ol stegnàt per la polenta, il tutto come protetto dalla culdìra per cagià, fissata a rovescio, legata alta come la torretta sul cammello…”.
In
Valle Imagna non c’era luogo migliore per presentare il nostro documentario
che, partendo dall’esperienza diretta e dalla vita di un protagonista, intende
riallacciarsi alla tradizione bergamina nel suo complesso. Si vuole cioè riportare
alla luce la dimensione umana di quelle tribù di allevatori seminomadi della
montagna lombarda che hanno saputo costruire relazioni sociali ed economiche di
prim’ordine, elaborando progetti dagli ampi orizzonti e colonizzando estese
aree della pianura, tali da caratterizzare il comparto zoo-caseario su ampia
scala. Le condizioni di tempo e l’aria frizzante della stagione autunnale, che
in montagna incomincia a pizzicare la pelle la sera, ma anche l’esigenza di
individuare un luogo a forte valenza identitaria, in grado di rappresentare la
storia sociale di tutta la comunità, ci hanno indirizzati subito verso la
chiesa parrocchiale. Su quel sagrato e nei prati circostanti i bergamini hanno
sempre portato in processione la Madonna la prima domenica di settembre, per
poi fare ritorno alla Bassa. Ol festù de
la Madóna. La tradizione si rinnova ancora oggi, tutti gli anni. Una chiesa
amata e abbellita anche grazie all’apporto dei bergamini, capaci un tempo di
costruire potenti alleanze e in grado di sostenere, grazie alla loro forza economica,
imprese encomiabili, connotando il mercato delle vacche e degli stracchini. Una
chiesa amata e difesa anche dall’ultimo parroco residente stabilmente nella
canonica poco distante, con affaccio sullo stesso sagrato, Don Amadio Moretti,
venuto a mancare ormai quattro anni or sono, dopo quasi sei decenni di
ininterrotta di azione pastorale nel piccolo villaggio sul monte. Percepisco
ancora la sua presenza ogni qualvolta transito nei paraggi del campus religioso composto da chiesa,
canonica e cimitero; come un eco proveniente da lontano, rieccheggia il tono
austero dei suoi insegnamenti, resi ancora più immediati dagli antichi gesti di
comando durante le processioni e le diverse manifestazioni religiose; sento il
rumore metallico delle grosse chiavi, nel pesante mazzo pendente dalle sue mani,
mentre l’anziano decano della valle attraversa il sagrato e, avvicinatosi alla
robusta porta chiodata laterale della chiesa, armeggia con il telecomando
dell’allarme e il grosso catenaccio di sicurezza.
L’ultimo parroco residente a Fuipiano, come l’ultimo bergamino. Un mondo antico che scompare definitivamente col venir meno dei suoi principali protagonisti. Nella parrocchiale del villaggio, però, la storia si ricompone con serenità e il tempo, nel suo incessante divenire, non pare essere poi così lontano. Tutta la comunità, di ieri e di oggi, si presenta dinnanzi. I sensi si acquietano e si respira un senso di pace interiore, elevata da un leggere profumo di cera e incenso. Don Amadio Moretti (classe 1919) e Carlo Rota (1933) non sono poi così diversi, anzi, al di là delle loro funzioni sociali, molte assonanze caratteriali e di comportamento li accomunano. Nati entrambi a Locatello, rispettivamente nelle contrade rurali Sassi e Bustoseta, tra loro distanti poche centinaia di metri, quindi in posizione di retroguardia rispetto alla linea avanzata degli alpeggi soprastanti, essi hanno ricoperto ruoli di primo piano dentro la cultura dei bergamini: Carlì praticando le antiche forme della transumanza regionale, allevando vacche e producendo stracchini, sulle orme dei suoi antenati, mentre Don Amadio impegnando tutta la sua vita in una parrocchia di alta montagna a caratterizzazione bergamina. Li univa un profondo atteggiamento di reciproco rispetto: “Carlì, pòrtem sö ü strachi!...”, gli chiedeva al telefono il vecchio prevosto, mentre l’abile casaro, sicuro di sé, dall’altra parte della cornetta, annuiva disegnando sul volto un vistoso sorriso, con orgoglio e devoto spirito di servizio. Entrambi figli della stessa montagna, hanno vissuto seguendo e applicando gli antichi insegnamenti, anzi Carlì ancora oggi richiama costantemente le “lezioni” del nonno tanto nel governo delle vacche quanto nella lavorazione del latte, mentre Don Amadio, alla domanda sul perché tanta determinazione nel rimettere in ordine il tetto in pietra della sua chiesa, non esitò nella risposta: “Per non sputare in faccia ai nostri vecchi!...”. Ha voluto dare l’esempio, per non vanificare i sacrifici degli anziani e conservare i beni che gli sono stati consegnati. Il carattere di entrambi, schietto e assai determinato, cocciuto e allenato a scelte non facili, mette in mostra i tratti di personalità coraggiose rimaste ancorate agli antichi valori sui quali sono stati formati sin dall’infanzia, quali segni indelebili ormai impressi nell’anima: la famiglia, il lavoro, la terra, regole basilari di comportamento, semplici, concrete ma efficaci, hanno caratterizzato la loro esistenza. Entrambi hanno imparato, sin da bambini, ad assumersi le loro responsabilità e a non delegarle agli altri, acquisendo presto il principio secondo il quale se s’vol vìga sa ergot, mè dàs de fà. Nessuno ha mai regalato loro nulla e ciò che hanno saputo realizzare lo hanno fatto con le loro mani e tanti sacrifici, anche se la vita non sempre ha restituito le soddisfazioni tanto attese. Ciononostante la loro indole li ha sempre aiutati a rialzarsi, dopo ogni caduta, per continuare il cammino della vita, con un’inossidabile e stupefacente serenità interiore. Li ha accomunati anche una manifesta resistenza ai veloci cambiamenti epocali che hanno caratterizzato la contemporaneità: così come Don Amadio non ha mai accettato la “modernizzazione” delle chiese e di molti riti religiosi, allo stesso modo Carlì è sempre rimasto ancorato alle pratiche zoo-casearie trasmesse dai suoi vecchi, poiché gli allevamenti intensivi, che oggi vanno per la maggiore, costituiscono una pericolosa deviazione dalle leggi morali e dalla dimensione umana del Creato.
La
loro è stata una vita non facile, controcorrente, non allineata, e, ancora una
volta, la montagna ha consentito a entrambi di ritagliarsi, in libertà e senza
omologazione, i propri spazi, quale manifesta forma di resistenza rurale e
morale contro i moderni processi di normalizzazione culturale…
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