Le mie mani si fanno rastrello
accarezzano la terra
restituendole riconoscenza
e cura come a una madre
ormai malata…
Nonostante la
meccanizzazione agricola negli ultimi decenni sia entrata massicciamente nei processi
lavorativi connessi alla gestione del prato e del pascolo, del campo e della
stalla, anche nelle diverse produzioni zoo-casearie della montagna orobica,
alcuni utensili tradizionali non sono mai stati abbandonati del tutto, anzi
molti di essi continuano a convivere accanto ai moderni macchinari e ad essere
comunemente utilizzati. In questo periodo, in modo particolare, mentre tutta la
Valle Imagna vive la sua apoteosi con la fienagione, capita spesso di vedere
nel prato contadini affaccendati con il rastrello impugnato tra le mani, come
tanti cavalieri armati di lancia, utilizzato insieme al ranghinatore; nei
medesimi prati vengono adoperate con energia antiche forche accanto a moderne rotoimballatrici, piccole
moto-agricole e grossi trattori con al traino, di volta in volta, le potenti
macchine per segà, spànd, oltà, andenà,
terà ensèma e ‘mbalà. Modalità di lavoro provenienti da lontano hanno caratterizzato la vita in montagna delle generazioni nei secoli
scorsi e coesistono con le nuove tendenze di modernizzazione del contesto rurale,
laddove possibile, per alleviare fatiche, facilitare l’accesso ai fondi e migliorare le
condizioni di lavoro complessive dei contadini. In verità, però, ormai da
diverse stagioni, nei prati di montagna sono pressoché scomparsi altri
strumenti, un tempo di generale impiego, quali sdìrna, seghéss, ranza, prida e martèl per bàt la ranza: anche
laddove non sopraggiunge ancora una strada trattorale, come nei löch più distanti o interclusi, sono
subentrati nell’uso comune decespugliatori e moto-cariole a ridimensionare la sempre operosa e infaticabile attività dei contadini impegnati nella pulizia di prati e pascoli per la
produzione di foraggio.
Ci sono rastrelli di ferro, di legno di plastica. I primi li utilizza l’orticoltore per livellare il terreno di fresca semina, dopo la zappatura, e radunare gli ultimi residui di pietrisco, mentre gli ultimi, dozzinali e dai multiformi colori azzurro e rosso, verde e marrone, oggi vanno per la maggior durante la fienagione: ottenuti da produzioni seriali, ormai hanno completamente sostituito i loro “antenati” di legno, realizzati invece artigianalmente dai medesimi contadini, allo stesso tempo ideatori, architetti e costruttori dei rispettivi contesti insediativi e produttivi. Durante il periodo invernale, il Tata ne costruiva di nuovi e riparava quelli esistenti, ma era in grado di realizzare in piena autonomia anche gabie, sdirne, dèrei, s-cùe,… : attrezzi costruiti completamente in legno, un materiale di facile reperimento e facilmente lavorabile.
Per costruire ol pèchen, invece, ol Tata utilizzava soprattutto legno d’acero montano, ma pure di frassino, fatto essiccare almeno un anno, mentre per i décc non c’era legno migliore del corniolo, duro e resistente. La lunghezza del pettine poteva variare dai quaranta ai sessanta ai centimetri, in relazione al suo utilizzo: ol rastelì, col pettine più corto, particolarmente consigliato per la pulitura di pascoli, da utilizzare quindi su terreni poco uniformi e sconnessi, era chiamato anche rastelì dol patös, mentre ol rastèl più comune e dalle dimensioni ordinarie era quello di uso corrente nei prati, impugnato un po’ da tutti, donne e bambini, ragazzi e anziani. Ma non poteva mancar ol rastelù, col pettine lungo anche un metro, chiamato anche rastèl da tràgna, messo in servizio per raccogliere e trascinare le ultime pagliuzze di fieno rimaste sul terreno. Al centro del pettine dalla robusta ossatura ol Tata realizzava con il gheröl il foro principale, entro cui incassare il manico, che doveva risultare leggermente inclinato di circa 70 gradi (per far lavorare meglio la dentatura sul terreno), mentre lungo tutto il suo sviluppo lineare realizzava una serie costante di fori, distanti circa 4 centimetri l’uno dall’altro, entro i quali alloggiare ad incastro i décc, lunghi anche oltre dieci centimetri, dalla forma leggermente appuntita e tale da graffiare decisamente il terreno.
E’ raro trovare oggi nel
prato vecchi rastrelli di legno e quelli di un tempo ormai sono stati consumati
dall’usura e non più riparati. Nessuno più li sa costruire o ha il tempo per
farlo. Se ne può rinvenire qualche raro esemplare dimenticato sui fienili di vecchie
stalle abbandonate all'oblio, oppure conservato appeso, come trofeo, sulle parti
interne di ambiziose tavernette.
Nella simbologia
popolare tradizionale il rastrello evoca azioni volte al risparmio e al
prudente accumulo, alla lotta per la sopravvivenza e al duro lavoro per
strappare alla terra risorse e beni indispensabili al sostentamento della
scarna economia familiare. Al giorno d’oggi, invece, anche il rastrello può
contribuire al perfezionamento di una dimensione ambientale sostenibile e alla
conservazione di un ecosistema culturale e produttivo a misura d’uomo,
ricercato e costruito passo dopo passo, mediante la percezione diretta e consapevole della natura e del mondo
circostante. Ol rastèl e l’tìra en cà, ol
s-ciòp e l’tìra dal de fò, sostenevano gli anziani, per indicare che solo
attraverso la paziente azione quotidiana di conservazione del proprio ambiente
di vita e di lavoro è possibile riempire ancora i fienili e tendere al
progresso economico e alla sicurezza
sociale. Il prato e il pascolo sono elementi irrinunciabili del paesaggio montano, ma vanno tenuti riconoscibili e ordinati. Il rastrello è lo strumento che riunisce, raccoglie, raduna, attira a sé
e contribuisce a dare forma tanto alla piccola quantità di fieno, ammucchiata
in modesti brasöi nel prato, quanto agli
imponenti cass de fé sui fienili. Non
a caso il Centro Studi Valle Imagna ha titolato una delle proprie collane
editoriali “I Rastrelli” con l’intento di raccogliere sul campo (il prato) e
conservare nei propri Archivi (il fienile) i principali fili (steli) della memoria e le
testimonianze di vita di contadini e artigiani, pastori e bergamini, soldati ed
migranti, carbonai e boscaioli, massaie e filatrici,… linfa vitale per la
nostra sopravvivenza culturale, fonti insostituibili di ristoro delle identità
e delle appartenenze. Il rastrello si trasforma, cessa di essere solo uno
strumento di cultura materiale e assume significati e valori sempre più rari e
preziosi. Soprattutto al giorno d’oggi.
Bravo Antonio, scrittore, filosofo e poeta della natura, della fatica e della semplicità bucolica!
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