Ieri sera mi sono addormentato ascoltando il suono dei campanacci delle vacche al pascolo nel praticello a fianco della mia abitazione, dove un tempo scorreva in superficie un ruscelletto e c’era pure una graziosa cascatella, le cui acque, di norma pressoché limitate, s’ingrossavano all’improvviso e a vista d’occhio durante temporali e acquazzoni. Molti anni fa quel tratto della Valle del Fontanello - così era chiamata sulle antiche mappe del Catasto del Lombardo-Veneto – è stato chiuso mediante la posa di grosse tubazioni interrate di calcestruzzo, che hanno così canalizzato tutta l’acqua piovana e di sorgiva proveniente dal versante soprastante. Mio padre era costantemente alla ricerca di nuove aree da coltivare a prato per le sue vacche e la pratica diffusa, ancora sino a tutti gli anni Ottanta del Novecento, era quella di spianare, laddove possibile, e rendere facilmente fruibili anche le superfici più impervie. La sua vita è stata una continua e costante conquista di spazi e opportunità. Ora, su quel pianoro leggermente inclinato, che si estende a mezzogiorno della vecchia stalla, stanno pascolando le vacche di Francesco nel tersöl, l’ultima tenera erbetta offerta dalla stagione: poca paglia, ma tante foglie dalle diverse tonalità di verde e fiori variopinti dai colori tenui nel prato settembrino. Durante il giorno il sole brilla ancora caldo nel cielo del Resegone e l’aria greve e pesante, carica di umidità, infastidisce e provoca un diffuso senso di soffocamento durante i lavori di braccia. Spalanco entrambe le ante della finestra e nella stanza, assieme al suono dei campanacci, corre un leggero e fresco venticello di tramontana - il respiro e soffio vitale della montagna - che scende da Piazzacà: lo intercetto mentre entra dalla finestra e, dopo aver attraversato il mio spazio, continua la sua corsa verso la finestra della stanza opposta, anch’essa aperta per creare ol corént d’aria. Lo sento passare e mi accarezza, mentre pian piano i sensi si acquietano ed entrano nella fase del dormiveglia: i pensieri vanno e vengono, si formano e scompongono velocemente e in continuazione, faccio fatica a trattenerli, mentre il sonno sembra avere ormai il sopravvento. Provo un senso di appagamento e ascolto in silenzio il vivace tintinnio, vicino o lontano, delle piccole campane appese alle colàne di àche. Suoni squillanti e argentini, dal timbro chiaro e vibrante: cerco di inseguirli uno per uno, distinguendoli in quel concerto cristallino, per cogliere i movimenti delle singole vacche, gli spostamenti e la loro collocazione fisica nel prato. Distinguo il suono delle semplici ciòche, appese ai collari dei diversi quadrupedi, dalla brùnza che segna la presenza di Bella, la vacca attualmente più lattifera e dal manto chiaro, che funge da capo-mandria: il rintocco pulito e adamantino di quella schèla di bronzo fuso e decorato, appesa a una colàna colorata e provvista di borchie argentate, premio di chissà quale concorso bovino e regalatami da Michele, accompagna il passo lento della vecchia vacca durante il pascolo tranquillo e il movimento del muso proteso verso il prato e intento a brucare, la sera, quando la calura del giorno sembra essersi sopita. Il concerto dei campanacci è interrotto dall’eco lontano delle campane, proveniente dal campanile del villaggio: quest’ultimo svetta, prima bandiera della comunità di San Simù, dal poggio tondeggiante del Cornèl, dove vigila imperterrito sul naturale torrione di avvistamento, con sguardo rivolto verso le contrade circostanti, distribuite ai quattro venti. Mentre il suono dei campanacci diffonde all’intorno allegre note di tono di un ambiente villereccio, pur senza alcuna ambizione bucolica, quello della grossa campana pare arrivare da lontano, comprime l’aria, che diventa pesante e tocca le corde dei sentimenti immersi nella storia, segna il passare del tempo e ci richiama in continuazione ai nostri doveri, alle difficoltà della vita, ai problemi che incalzano e spesso non ci fanno dormire.
Le vacche tacciono, non sento un muggito, una alla volta si sdraiano anch’esse nel prato in posizione di riposo. Ogni tanto, al suono delle schèle, s’inserisce un verso difficilmente descrivibile, una via di mezzo tra il muggito delle vacche, l’ululato del lupo e il raglio dell’asino: è quello di Marchino, il giovane toro di razza grigio-alpina mentre afferma la sua presenza e sorveglia la mandria di fronte alla visita inaspettata di qualche animale notturno o al passaggio di un viandante ritardatario o nottambulo. Il suo aspetto imponente e il comportamento testardo e possessivo sono tali da dissuadere chiunque si avvicini al recinto dei bovini o tenti di oltrepassarlo. La mandria ha una propria organizzazione sociale, con atteggiamenti che solo in parte riusciamo a percepire e comprendere fino in fondo: ciascun capo certamente riveste un ruolo, chi da gregario, chi da elemento trainante, come è la vacca batidura. Sorrido al pensiero che mio padre, allevatore di vacche da antica data e attualmente con serie difficoltà deambulatorie, minacciato dall’avanzare dell’età e col fisico malmesso a causa delle molte fatiche sostenute nel passato, ieri mattina si è spaventato quando, accompagnato in auto nella zona del pascolo da mia madre, si è trovato di fronte improvvisamente la grossa sagoma taurina, la quale ha incominciato ad emettere versi allarmanti, mentre allungava la testa contro gli inaspettati ospiti. Pierina, alla guida della piccola e rossa autovettura, alla vista di Marchino mentre l’broncàa e l’zapàa, dimenando la testa e abbassandola verso il prato, ha effettuato una veloce inversione di marcia e si è allontanata seduta stante.
Ormai nei prati vicino a casa l’erba incomincia a scarseggiare e una buona parte dei nuovi germogli sono stati spezzati dalla recente e violenta grandinata che ha ricoperto, come dopo una forte nevicata, i terreni circostanti. La calamità stagionale ha costretto diversi piccoli allevatori a utilizzare già i primi balù de fé accumulati sui fienili per far fronte alle scorte alimentari dell’inverno. Tra pochi giorni, uno o due al massimo, Francesco accompagnerà la mandria in un diverso pascolo più lontano, lassù ai Calf, e la sera, prima di addormentarmi, mi mancherà la piacevole compagnia del concerto di campanacci. Suoni, rumori, odori, luci e ombre, caratterizzano il paesaggio sonoro, luminoso, olfattivo del contesto, anzi costituiscono i principali codici di comunicazione, attraverso i quali entrare in connessione con l’ambiente naturale e antropico locale, parte del medesimo insieme. Quando viene meno questa forma di immedesimazione identitaria e si crea una frattura con il territorio, considerato in questo caso come elemento separato e diverso, non più coincidente con la vita delle persone, vengono meno anche i codici del linguaggio e, come una babele, quello dei campanacci cessa di essere un piacevole concerto e diventa un rumore fastidioso, come avviene per le campane, da mettere a tacere, soprattutto durante le ore notturne. Così pure l’odore delle vacche e della stalla, nonostante abbia caratterizzato le nostre origini, viene ormai allontanato dai centri abitati. La ruralità non è più percepita come un ambito residenziale, mentre solo l’urbanità è interpretata e vissuta quale spazio di progresso sociale ed economico. Le comunità rurali si allontanano progressivamente dalle loro origini e mettono alla berlina il suono delle campane, l’esistenza delle concimaie, la presenza delle vacche nelle antiche stalle all’interno delle contrade.
Vivere a contatto con la natura, ascoltare i suoni rilassanti che provengono da essa, accettare gli strumenti di comunicazione e i linguaggi degli elementi che la compongono, ci consente di partecipare alla vita della terra, di costruire relazioni dirette e personali con l’ambiente circostante, di vivere e trasmettere forti emozioni, sperimentando sulla propria pelle impagabili sensazioni di benessere. La natura è varia e generosa, a volte anche avara e sparagnina, come i frutti della terra, che variano un anno dall’altro, proponendo, di volta in volta, in relazione al ciclo delle stagioni, forti elementi di novità e attrazione. È vero: tra pochi giorni, la sera, prima di addormentarmi, non ci saranno più le vacche nel prato ad accompagnarmi nel sonno con il loro concerto di campanacci, come qualche mese fa facevano i grilli canterini nel prato rigoglioso di maggengo. Vorrà dire che ascolterò l’ululato dei gufi la notte o il cinguettìo degli uccelli all’alba, il fruscio del vento, i suoni della pioggia, lo scorrere impetuoso del ruscello fò a la Bàrbara, la valletta di ponente che s’ingrossa a dismisura durante i temporali. Oppure ascolterò il silenzio, come quando, durante le forti nevicate invernali, l’effetto assorbente della coltre di neve mette a tacere sia le attività dell’uomo, sia quelle della natura, nel tempo del riposo. In qualsiasi momento, nelle sue diverse espressioni, la natura riesce a stupire e a trasmettere effetti rigeneranti sul nostro spirito, rilassa i sensi e favorisce diversi stadi di concentrazione. I suoni che provengono dall’ambiente naturale e dalle attività messe in atto dall’uomo, soprattutto dai contadini operosi, ci consentono di ritrovare il nesso tra la nostra esistenza e quella del Creato, di cui facciamo parte, che agisce come una grande potenza generatrice di vita. In continuazione, senza sosta …
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