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RICOMPOSIZIONE E RIQUALIFICAZIONE FONDIARIA IN MONTAGNA E SOSTEGNO DELLE PICCOLE AZIENDE AGRICOLE INDIVIDUALI.


Non c’è come vivere accanto ai contadini per comprendere quali siano i problemi concreti dell’agricoltura e dell’allevamento nelle zone di montagna, soprattutto quelli di natura strutturale, la cui soluzione prescinde persino dalla buona volontà e dalla capacità d’intervento dei singoli operatori rurali. L’attuale situazione di crisi sociale ed economica, che per certi versi ha suscitato nuove attenzioni nei confronti delle terre alte, ha ulteriormente messo in evidenza vistose lacune e vuoti di prospettiva, da colmare quanto prima se vogliamo veramente sostenere e rafforzare il sistema montagna, mettendo in atto azioni concrete di sviluppo. I piccoli allevatori presidiano veramente il territorio, praticano ancora l’alpeggio (non senza difficoltà), mantengono in vita piccoli caseifici rurali all’insegna dell’artigianalità, vivono quotidianamente le terre di monte, affrontano continui spostamenti l’estate da un pascolo all’altro con i loro armenti, soffrono per la carenza di foraggio, sono in cerca ogni giorno di soluzioni diverse e originali per superare situazioni di difficoltà contingenti. Nulla è scontato e il nascere di un nuovo giorno è solo l’inizio di un’altra avventura dai risvolti non sempre prevedibili. Le istituzioni locali, soprattutto a livello regionale e all’interno delle comunità territoriali, negli ultimi decenni hanno messo in campo diversi interventi per il miglioramento delle infrastrutture agrarie, ad esempio a sostegno della meccanizzazione agricola o dell’adeguamento di stalle, ricoveri vari e altri impianti di produzione e per la trasformazione di prodotti; ciò ha decisamente migliorato le condizioni di lavoro e di vita di contadini. Sul piano strutturale, però, per quanto attiene soprattutto alla costituzione dei fondi produttivi e delle stesse aziende agricole, rimangono irrisolti alcuni nodi fondamentali. 


Si pone innanzitutto la questione della ricomposizione di fondi destinati all’agricoltura e all’allevamento. Nella seconda metà del Novecento, quando dal 1961 al 1991 in Valle Imagna i lavoratori attivi in agricoltura sono passati dal 23% al 3%, i fondi agricoli hanno subìto un consistente attacco dall’imponente processo di “modernizzazione” del Paese, che ha provocato il depauperamento di molte risorse rurali, per l’eccessivo frazionamento e smembramento degli antichi contesti produttivi. La crisi del modello tradizionale della famiglia rurale e il venir meno della sua dimensione patrimoniale unitaria, il passaggio repentino dal mondo contadino di un tempo alla società moderna, costituita sul modello urbano e industriale, hanno determinato la progressiva perdita di interesse nei confronti dei fondi agricoli e delle pratiche ad essi connesse, che si trasmettevano da secoli nei circuiti sociali ed economici dei villaggi. La costituzione dei fondi produttivi in montagna è stata il frutto del lavoro incessante ed eroico di generazioni di valligiani, finalizzato innanzitutto al rafforzamento della capacità di sostentamento delle rispettive famiglie. La regola generale era che la proprietà fondiaria, soprattutto quella connessa alle produzioni agricole e zoo-casearie, dovesse rimanere in famiglia, formatasi sullo sviluppo maschile della discendenza in direzione patrilinea. Per il perseguimento di tale scopo erano stati messi a punto specifici istituti giuridici, alcuni di quali assai diffusi nelle società preesistenti, come quello della fidecommissione, per evitare lo smembramento della proprietà attraverso la divisione ereditaria e il suo mantenimento sulla linea parentale prescelta. La pratica più diffusa consisteva, durante la divisione ereditaria, nel far sì che i fondi rimanessero agganciati, come tanti frutti, sulla linea dei figli maschi, i quali, con la trasmissione del cognome, avrebbero perpetuato la discendenza, nella visione di una famiglia non solo allargata, bensì anche estesa nel tempo, cioè che si sarebbe sviluppata ben oltre lo stretto ambito di vita temporale di singoli membri. In quanto alle figlie, dato che esse sarebbero andate a incrementare le famiglie di altri gruppi parentali, veniva loro riservata la dote e, tuttalpiù, una quota di eredità, la parte non disponibile del testatore, di norma monetizzata. In diversi contesti parentali, sempre al fine di mantenere integra la proprietà, allontanando lo spettro della sua dispersione, uno di figli maschi avrebbe rinunciato al matrimonio (lo zio barba), accettando di fatto, quale conseguenza ancora poco conosciuta, anche forme mai dichiarate di concubinato familiare. La terra, nella società agricola tradizionale, ha rappresentato uno dei traguardi più importanti della famiglia e, per la difesa e l’ampliamento di propri fondi, valevano tanti sacrifici, persino l’emigrazione all’estero. Con la perdita d’interesse nei confronti del mondo agricolo della montagna – una vera Cenerentola nelle politiche di sviluppo - quando cioè, nella seconda metà del secolo scorso, hanno avuto un grande slancio i nuovi costumi e i consumi propri della società urbana e industriale, che sembrava portatrice di un progresso duraturo, non più agganciato al lavoro della terra, in poco tempo sono venute meno tutte quelle regole che avevano sostenuto l’impianto economico e sociale di base della società rurale tradizionale. Le nuove proiezioni del benessere hanno trasformato la terra in un potenziale ambito di sfruttamento edilizio, snaturando così la sua funzione originaria, e i fabbricati rurali a essa connessi in possibili nuove abitazioni o chalet inneggianti al nuovo corso. Venuto meno il suo antico interesse produttivo, la terra ha subìto una continua parcellizzazione, senza precedenti, che in parte continua tuttora, rendendo i nuovi mappali catastali di piccole dimensioni poco funzionali all’attività agricola. Poderi e unità fondiarie complesse, formatesi nei secoli precedenti, quali espressioni delle attività agricole delle famiglie estese, in pochi lustri sono stati smembrati e ripartiti in molteplici e piccole unità, rendendo oggi assai complicata la ripresa delle produzioni. Le piccole aziende che, ai nostri giorni, cercano di ripartire in montagna, molte delle quali costituite da giovani operatori, sono costrette a destreggiarsi un po’ di qua e un po’ là, migrando in continuazione, con i rispettivi animali, da un fazzoletto di terra all’altro, con enorme dispendio di risorse e l’impossibilità di identificare una sede aziendale unitaria. I segnali positivi di ripresa dell’attività agricola in montagna richiedono oggi, da parte delle principali istituzioni locali, una seria riflessione per introdurre misure concrete di sostegno a favore della ricomposizione fondiaria, in modo da recuperare, almeno in parte, alcune situazioni nel passato compromesse dal disfacimento e dalla dispersione del tessuto rurale, a causa del disordine complessivo prodotto in pieno boom economico, quando la montagna è stata per alcuni decenni un territorio di conquista e, di fatto, abbandonata a se stessa. 


Alle azioni di sostegno per la ricomposizione fondiaria, non possono che seguire misure volte alla riqualificazione produttiva delle singole particelle, rimaste per alcuni decenni abbandonate e senza interventi manutentivi. Il venir meno dell’interesse della terra a scopo agrario, come è stato sopra ampiamente documentato, non solo ha causato il suo continuo e incessante frazionamento per altri scopi, ma di pari passo si è sviluppato un evidente processo di dequalificazione: campi diventati prati, prati diventati pascoli, pascoli diventati boschi, boschi un tempo produttivi trasformati in foreste selvagge, impenetrabili, disordinate. In montagna la superficie produttiva si è notevolmente ridotta negli ultimi settant’anni, anche in relazione alla dequalificazione di estesi e interi versanti, rimasti improvvisamente sprovvisti della loro antica vocazione agricola. Tale fattispecie ha determinato, soprattutto nella fascia prealpina, una progressiva carenza di campi, prati e pascoli a sostegno delle attività agricole e zootecniche, rendendo la montagna ancora più tributaria di foraggio e altri prodotti agricoli nei confronti della pianura. I boschi sono aumentati a vista d’occhio, annullando spesso quelle isole colturali un tempo coltivate a prato e a pascolo, già conquistate dall’uomo che le aveva pazientemente e con tanti sacrifici disboscate, dissodate, coltivate e intensamente vissute. La Regione Lombardia ha recentemente introdotto una nuova misura di sostegno per la ricostruzione dei muri a secco sui versanti già terrazzati e in condizioni di degrado, favorendo pure l’introduzione di preesistenti e nuove attività colturali. Al restauro e alla ricostruzione dei beni di architettura rurale, con la conseguente eliminazione delle evidenti condizioni di degrado ambientale, vengono accompagnate e sostenute azioni specifiche per la rivitalizzazione della capacità produttiva di versanti. Misure analoghe a quella coraggiosamente messa in atto a tutela dei terrazzamenti colturali, oggi riconosciuti patrimonio immateriale dell’umanità, sarebbe opportuno che fossero introdotte anche per il ripristino ambientale e produttivo di boschi, prati, pascoli e selve castanili, terreni molti dei quali abbandonati da decenni e di fatto declassati sul piano della loro capacità colturale. L’analisi comparativa tra la situazione attuale e quella risultante dal Catasto del Lombardo Veneto (risalente alla metà del diciannovesimo secolo), soprattutto per quanto concerne l’utilizzo del suolo, ci consente di ricostruire il volto originario dei luoghi prima della Grande Trasformazione intervenuta nella seconda metà del Novecento. Alcuni interessanti dati, riferiti ai villaggi di Corna Imagna e Sant’Omobono Terme, sono reperibili sul sito web catastistorici.it. Per concludere questa riflessione, il recupero di nuove aree da destinare a prato stabile consentirebbe di abbattere la domanda foraggera rivolta all’esterno e contenere quindi l’ingresso in valle, tutti gli anni, di migliaia di rotoballe provenienti dalla Bassa, destinate al fabbisogno alimentare dei bovini durante la stagione invernale, che però un lato pregiudicano la conservazione delle biodiversità prative e pascolive locali, dall’altro contribuiscono a mantenere in condizioni di subalternità i piccoli allevatori di monte. È evidente, inoltre, che, in termini di costi, una rotoballa prodotta in montagna equivale almeno a tre rotoballe confezionate in pianura, quindi i contadini della montagna, per ottenere gli stessi risultati degli agricoltori della Bassa, devono lavorare almeno tre volte tanto. Come abbattere questo gap di penalizzazione? Come perequare o compensare equamente questa disparità? Come quantificare alcuni costi standard di produzione dello stesso bene in contesti così differenti? Ma soprattutto: chi si occupa oggi di queste problematiche? 


La montagna lombarda vive attualmente un periodo di rilancio, per la ripresa dell’iniziativa agricola e zoo-casearia di base, grazie all’attività di centinaia di piccoli agricoltori e allevatori disposti a ricostruire una relazione operosa e diretta con il territorio, dove sperimentare nuove formule produttive e ricercare diverse opportunità di miglioramento della qualità della vita. Piccoli imprenditori rurali disposti a riversare nella montagna tanto lavoro. Nuove aziende agricole, soprattutto di giovani, hanno fatto la loro comparsa nel panorama rurale delle valli orobiche e stanno cercando di connettere il loro percorso esistenziale e produttivo con le antiche pratiche rurali e socio economiche messe in atto nei secoli dalle generazioni passate. Connessioni non sempre facili, né scontate e la loro collocazione nella società rurale dipenderà anche dalla capacità di accoglienza della popolazione e dal sostegno delle istituzioni. Vecchi contadini, ritornanti, nipoti di montanari ormai anziani, ma anche nuove leve provenienti dalla città e in cerca di diverse e più autentiche espressioni di vita, s’incontrano oggi in montagna e cercano, attraverso il lavoro e l’impegno diretto e personale, di mettere a fuoco nuovi modelli produttivi, ispirati a una rinnovata società rurale. Agricoltura e allevamento rimangono i due cardini principali. La montagna attraversa un periodo assai delicato, di grandi trasformazioni in corso, non sempre evidenti e di grido, ma costitutive di un tessuto di iniziative in campo agricolo, il più delle volte ancora silenziose e poco conosciute, che contraddistinguono una fase di passaggio, di incubazione, dalla quale potrebbe nascere una nuova dimensione di montagna. Viviamo, ma non ce ne siamo ancora accorti, una fase generativa, caratterizzata da grandi intuizioni e tanto coraggio, dentro la quale le istituzioni territoriali sono chiamate a svolgere una funzione insostituibile, per riconoscere e porre sotto tutela le diverse iniziative avviate, inserendole in una relazione di comunità e traghettando il passaggio da una fase sperimentale, animata da notevoli entusiasmi, verso forme di organizzazione socio-economica più strutturate e da consolidare. I nuovi imprenditori rurali, soprattutto i giovani, non vanno lasciati soli, ma aiutati, considerati, sostenuti non solo nella fase di avviamento delle rispettive attività, bensì mettendo in atto utili, anzi necessarie attività di supporto. Se lasciati soli, il rischio reale è che molti di essi non riescano a sostenere il peso di tanti sacrifici e, di conseguenza, interrompano l’attività. È già successo. È stato affermato più volte e in diverse circostanze che la montagna non è fatta per vivere da soli, ma insieme agli altri, e ciò vale anche per le imprese agricole. Da soli si muore. La struttura aziendale delle piccole imprese agricole di montagna è costituita, il più delle volte, da una sola persona, sulla quale grava tutto il peso gestionale, che in ambito zoo-caseario richiama la filiera che va dall’allevamento delle vacche alla produzione del latte, sino alla sua trasformazione e alla vendita dei formaggi. Siamo in presenza di aziende dalla struttura assai fragile, le quali vivono costantemente in condizioni oggettive di criticità, aggravate dal fatto che molte di esse attualmente non hanno più alle spalle nemmeno il supporto e il sostegno della famiglia, come invece avveniva nella preesistente società rurale. Bastano, infatti, un incidente oppure una malattia tali da immobilizzare l’imprenditore per un periodo medio-lungo, che quell’azienda crolla a picco, quando anche l’intervento sostitutivo, solidale e di breve durata, degli altri imprenditori non è più sufficiente. Sostenere la fragile economia della montagna, in questo caso, potrebbe voler dire (è un grande auspicio!) la costituzione di centri servizi, distribuiti su territori omogenei, in grado di affiancare personale specializzato (di volta in volta retribuito dalle stesse imprese che ne beneficiano) alle aziende in condizioni di temporanea difficoltà, considerato che la piccola imprenditoria locale svolge funzioni di evidente interesse sociale e pubblico, soprattutto per quanto concerne la difesa e la tenuta del territorio.




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