Aggrappato coi piedi al pendio pascolivo scosceso della Rìa dol Cöch, a Prabicù, nonostante la stabilità della mia persona sia costantemente minacciata da un ginocchio dolorante che rende il passo incerto, procedo alla pulizia del versante dal fogliame dei castagni, in modo da favorire nei prossimi mesi la crescita di nuova e fresca erba per l’alpeggio dei bovini. Mi spingo sino al punto più elevato, raggiungendo il margine del giovane boschetto di latifoglie, che ogni anno si protende in avanti, per conquistare nuove aree da “rinaturalizzare”. Anzi, cerco di addentrarmi un po’ nel bosco, facendomi strada tra rami e cespugli intrecciati, col lungo tubo del soffiatore, azionato dal motore a scoppio che porto sulle spalle a mezzo di due robusti spallacci. Il forte getto d’aria ripulisce davanti a me la cotica erbosa dal fogliame essiccato, che sarà radunato in mucchi in fondo al pascolo e trasportato poi con il trattore sö stalòt de la fòia, dove andrà a incrementare la scorta necessaria a rinnovare la lettiera di vacche e manze nella stalla durante il periodo invernale, ma contribuirà pure a rinnovare un singolare ciclo produttivo tipico dei territori di montagna: il fogliame di castagno, faggio e carpine che diventa letame, il letame che diventa che diventa erba, l’erba che diventa latte, il latte che diventa stracchino. Ogni singola azione costituisce una parte di un disegno ambientale molto più grande ed esteso.
Il ripido versante è baciato dal sole di mezzogiorno. Nell’area disposta sulla sinuosa linea orizzontale di congiunzione tra il pascolo e il bosco soprastante - una sorta di battigia della montagna, dove il pascolo si addentra nel boschetto, mentre la colonia di pianticelle tende a venire avanti discendendo il declivio – mi si presenta dinnanzi uno spettacolare mondo sommerso: pesacà, primule, piccoli mughetti violacei e altre essenze floreali riscaldate dal calore riflesso dalla terra, già avvolte dal manto di foglie che, come una coperta, le proteggeva dalle prime brinate invernali. La natura parla e il suo linguaggio, una volta compreso, si trasforma in un codice spettacolare, unico, sorprendente; chiede di essere vissuta, rispettata e tenuta in ordine assecondando il suo ciclo vitale. Quanto prima occorrerà ritornare quassù con la piccola motosega per regolare il fronte del limitar del bosco, tagliando alcuni rovi e cespuglietti di ìghen che si protendono troppo in avanti e minacciano la tenuta e l’esistenza stessa del pascolo. Intanto il lavoro prosegue per l’asporto del fogliame e, col “cannone” del soffiatore indirizzato sul terreno, avanzo deciso, lasciando alle spalle, oltre alla cotica erbosa ben pettinata e sgombra di ostacoli, anche una lunga feléna di pensieri e argomentazioni, silenziate dal rumore continuo e altalenante del motore a scoppio.
Discendo gradualmente il versante, percorrendo in orizzontale i piccoli sentieri impressi nel terreno dalle vacche al pascolo, le quali hanno disegnato una serie continua di linee che si estendono e si intersecano nella direzione della loro lunghezza, attraversando tutta l’estensione del pascolo, e consentono di risalire o discendere il versante camminando a zig-zag, su percorsi pressoché pianeggianti. Il ripido pendio si trasforma in una pagina a righe, scritta sul quaderno della storia da quanti, uomini e animali, nei secoli scorsi lo hanno vissuto e interpretato. Quante volte l’avranno risalito, e ogni volta conquistato e abbellito, il bisnonno Piero e il nonno Luigi, né più né meno di come sto facendo io oggi, per ripulirlo dal fogliame, avvalendosi, ai loro tempi, di strumenti semplici, il più delle volte realizzati da loro stessi, ma efficaci: la scua de bachète de cornàl, ol rastèl e la gabbia. Gesti e azioni che si ripetono da sempre. Nonostante la meccanizzazione agricola mi abbia fornito soffiatore e trattore, devo riconoscere che, sul piano dell’organizzazione e della tenuta dell’ambiente, le loro posizioni erano molto più avanzate e decisamente in linea con il tempo della natura, con la quale essi costituivano un tutt’uno. Non uscivano di casa senza avere agganciata la felépa alla cinta dei calzoni, dalla quale pendeva l’immancabile corlàs, amico fedele e sempre pronto all’uso. All’occorrenza ol Tata, deposta la scùa de bachète, si inginocchiava sul pendio e, impugnata la roncola, tagliava alla base trüsì e spì che si erano insinuati nel pascolo, come pure quelle bròche del bosco sporgenti oltre la linea di confine. Egli conosceva palmo a palmo ogni piega del versante, per averlo desiderato e lavorato intensamente, sapeva distinguere le diverse criticità e opportunità del pascolo, anzi era in grado di descriverne la sua consistenza topografica, aveva infatti una sua mappa mentale che gli consentiva di localizzare tutti i suoi principali elementi costitutivi: numero ed essenze dei vari alberi, sapèi, cornèi, trüsì, pendenze, rocce affioranti, ceppi e dislivelli vari,…
Col soffiatore in mano ripulisco la rìa in un solo giorno, quando ol Tata ne avrebbe impiegati almeno tre, ma il suo tempo non aveva limiti, l’ìa töt tacàt, a differenza del mio, sempre più frettoloso per l’incalzare di molti altri impegni in contesti anche assai diversi. A fare la differenza non sono solo gli strumenti utilizzati, ma in primis la relazione con l’ambiente, il pascolo e il bosco, che per il nonno era totalizzante e dal quale dipendeva la sua stessa sopravvivenza e quella della famiglia. La sua vita non aveva soluzioni di continuità ed è stata consumata dentro la natura, il campo e il prato, la stalla, il pascolo e il bosco, come è avvenuto negli ultimi millenni per generazioni di valligiani. La mia esistenza, invece, spesa tra le scartoffie e le lettere, spesso intrattiene relazioni estranee con l’ambiente circostante, dal quale non dipende più in modo così diretto e immediato; ma quando ritorno a lavorare nel pascolo e nel bosco, nel solco di precise tradizioni familiari, come in questo momento, mentre discendo la Rìa dol Cöch, ritorno bambino e ritrovo l’essenza delle cose, riduco al minimo comune denominatore anche le questioni più complesse, seguo l’istinto che mi riporta a una primitività ideale intenta a conoscere e ad assecondare le forze della natura, affinchè non sfuggano alla loro ragion d’essere impressa dalla storia, grazie alla straordinaria forza e capacità dell’uomo di rendere docili e vivibili anche contesti difficili. Affiora il desiderio di un’esistenza più semplice, resa grande e spettacolare dalla primigenia e straordinaria forza umanizzante del Creato.
Mi guardo intorno e osservo che l’ambiente non è altro che il risultato di un’antica alleanza tra l’uomo e la natura, mediata e rafforzata dalla presenza della famiglia, e non c’è ambito che si sottragga ormai a tale relazione. Ogni solco del pascolo che sto calpestando è testimonianza viva di questo solido patto e la presenza dell’uomo si avverte dovunque nella continua evoluzione dell’ecosistema montano: volgo lo sguardo a levante e vedo spiccare sulla dorsale, oltre un esteso castagneto, il mirabile complesso rurale di Cà Baghina, con casa e stalle antiche giunte sino a noi dal Medioevo, mentre a ponente, adagiato su un promontorio naturale e inserito in uno spazio aperto coltivato a prato stabile, si erge, come una robusta roccaforte in posizione preminente sulla valle, l’insediamento coeso di Pidisì, l’antica contrada rurale un tempo anch’essa stabilmente abitata; in posizione leggermente ribassata, intravvedo pure l’abitato di Canìt, disposto sul versante speculare destro della àl de Tolóne, le cui famiglie hanno esercitato da almeno mille anni la loro influenza sin quassù. Nel contesto lavorativo tradizionale, a fronte cioè di esigenze concrete e irrinunciabili, dalla piana di Prabicù ol Tata comunicava con la nonna rimasta nell’abitazione della contrada mediante grida e urla, amplificando la voce con le mani: messaggi semplici ed essenziali riecheggiavano nella valle e avevano una funzione rassicurante. Alle mie spalle si sviluppano, in successione verticale, boschi di faggi e latifoglie, che si spingono sino a raggiungere prati e pascoli di monte distribuiti sulla linea di spartiacque tra la Valle Imagna, la Valle Brembilla e la Valle Taleggio. Di fronte, invece, con lo sguardo rivolto a mezzogiorno, intravvedo a distanza Recüdì, il löch che fu un tempo di Jósef, nonno materno, attualmente abitato da Francesco, mio figlio, anch’egli intento ai lavori di sempre, tra stalla e prato, pascolo e bosco. È la vita che si rinnova e continua a perpetuarsi non solo nello spazio visibile del presente, ma affonda le sue radici sulla lunga linea del tempo…
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