Sia l’abate Angelini (sec. XVIII) che il Tiraboschi (sec. XIX), nei loro rispettivi dizionari, non dedicano troppo spazio alla descrizione della pult, un piatto comunque assai diffuso nella dieta contadina sulle Orobie. Il primo la descrive vagamente come una sorta di poltiglia, accostandola alla polenta, ma senza distinguerne i caratteri, mentre il secondo la considera una sorta di indefinita farinata di granoturco cotto in molta acqua, come la polenta ancora annacquata e in fase di prima cottura, quindi non ancora addensata. Diversamente, invece, nel linguaggio comune del giorno d’oggi, la polta non è altro che una polentina di farina bianca, quindi di frumento, considerata forse ancora cibo ordinario della povera gente, un po’ come il pastaròt per le galline o il pastù per i maiali.
In realtà la pult, nella versione tramandata nella famiglia di chi scrive, è sempre stata molto di più, una sorta di polentina dall’aspetto semisolido ottenuta dall’impasto e dalla cottura di farina di mais miscelata con latte vaccino, intero e possibilmente di recente mungitura. Versata nella scödela e cosparsa di formài de grana, oppure de gratù (lo stracchino stagionato e indurito, poiché non tutti potevano permettersi di acquistare il formaggio da grattugia al mercato), come per brillantinare la calotta dorata, il gustoso alimento poteva essere consumato col pirù, ma anche col cogià, in relazione alla sua consistenza. Il termine potrebbe vagamente alludere a un piatto dall’aspetto e dal sapore poco appetitoso, ma così non è, poiché si tratta di uno degli alimenti più diffusi nelle famiglie di un tempo, che soddisfaceva il palato e riempiva la pancia soprattutto nel desinare serale, in alternativa alla menèstra de lard, alla scödèla de làcc o alla panàda, quest’ultima solitamente riservata per puerpere, ammalati e bambini. La cottura del pane non era una pratica diffusa nelle famiglie contadine e molte massaie, già la mattina di buonora, le tacàa sö, appeso alla sósta del focolare domestico, ol stegnàt per far cuocere una buona pultìna per la prima colazione. La pult, dunque, si consumava indifferentemente tanto la mattina di buon’ora, quanto la sera per la cena.
Piatti semplici, ottenuti con chèl che s’gh’ìa e sempre nell’ottica di ottimizzare tutte le risorse disponibili e de traasà negót. Si faceva peccato. Anche la polenta avanzata dol mesdé, la sera stessa o la mattina del giorno dopo si tagliava a fette e, sfragoiàda fò in una scodella di latte caldo, sostituiva le castagne e costituiva un ghiotto alimento: polénta e làcc. Sino a tutta la prima metà del secolo scorso, ma anche nei lustri immediatamente successivi, nei nostri villaggi rurali non c’era famiglia che non avesse almeno una stalla dove allevare una o due vaccherelle, la pecora e ol porsèl, alle cui incombenze varie, quando gli uomini erano lontani per lavoro nei boschi o sui cantieri edili, provvedevano le donne, gli anziani e i bambini. Nelle piccole comunità rurali a volte persino il prevosto allevava la propria vacca: il presbitero investito di dignità sacerdotale che mi ha accompagnato dalla nascita sino al matrimonio, Don Emilio, anziché la vacca, nei locali seminterrati della canonica (oggi disabitata e con le tapparelle perennemente abbassate – quanta tristezza!), allevata galline e conigli, mentre nell’orticello antistante non disdegnava di coltivare ortaggi e tuberi. Mi pare ancora di intravvederlo, indaffarato e a schiena bassa nel suo campetto, avvolto nel lungo grembiule nero da lavoro, mentre zappa, estirpa l’erba, si muove compiaciuto tra i diversi settori del suo orticello, mentre osserva e valuta la crescita delle verzicanti piantine di verdura. Nel tardo autunno si faceva aiutare dal Bèpo, sagrista e provetto carbonaio sempre disponibile a offrire varie prestazioni rurali a favore delle famiglie del villaggio, soprattutto per sostenere i faticosi lavori di vanga e di concimazione degli orti.
Si potevano contare sulle dita di una mano coloro che non disponevano di stalla con bovino, forse ol dutùr, ol spessièr e pochi altri. L’economia di sussistenza, rafforzata in certi periodi da spinte autarchiche, imponeva il massimo sfruttamento delle opportunità economiche offerte dal contesto per raggiungere la sufficienza alimentare: la coltivazione del campetto nelle poche sée disponibili al sülìf, lo sfalcio del praticello dal quale ricavare la scorta di foraggio per le vacche nel periodo invernale, la tenuta del pascolo per l’alpeggio estivo, la gestione della boschina dove poter tagliare il legname occorrente come combustibile e materiale d’opera. Di tutto, un po’.
Farina di granoturco e latte vaccino sono i due esclusivi ingredienti del nostro piatto: prodotti locali espressione fedele del sistema economico tradizionale ottenuti entrambi nell’ambito delle molteplici attività della famiglia rurale. Diversi versanti della montagna prealpina, in modo particolare quelli meglio esposti al sole, sono stati terrazzati anche sino a mille metri di altitudine, per meglio coltivare, söl pià de sée, tuberi, ortaggi e granoturco. Mazzi di canù venivano poi appesi in bella vista sö i spalengàde dei loggiati delle vecchie case per l’essiccazione; quindi, dopo la sgranatura, sacchi di mergòt confluivano al mulino per la macinazione in farina. Nel villaggio di San Simù, in alta Valle Imagna, sino alla prima metà del Novecento, erano ancora attivi due mulini, quello dei Grìse di Brancilione e l’altro nella Valle Rosagàt. La farina di mais, che dal sedicesimo secolo ha sostituito ampiamente quella di castagne, è sempre stata un ingrediente versatile e di largo impiego, utilizzato in molti preparati alimentari tradizionali, persino nella smaiàssa, il “dolce” più diffuso da queste parti. Convivono, nella cucina tradizionale, i sapori e i profumi, la storia sociale e l’economia della terra di cui è espressione e nella pult i due ingredienti – latte e farina – mantengono distinti i rispettivi caratteri gustativi, pur nel loro mescolamento nella creazione di un nuovo prodotto gastronomico. La nostra polticella, infatti, sa trasmettere dolci sensazioni gustative dall’intenso profumo di latte, mentre il palato è stuzzicato dalla consistenza materica dei minuscoli granuli di mais ben amalgamati.
Nonostante la geografia sociale ed economica delle nostre valli oggi sia complessivamente diversa da quella della prima metà del secolo scorso e metta in evidenza notevoli condizioni di degrado dell’ambiente umano, soprattutto per quanto concerne la tenuta dei versanti terrazzati e la concomitanza di numerose stalle rimaste ormai orfane dei loro quadrupedi, molte famiglie rurali mantengono viva la tradizione gastronomica territoriale e sulle loro tavole fanno regolarmente ritorno pult, iàda, nosècc, smaiàssa,… oggi come nei secoli passati, con poche varianti, secondo le diverse linee verticali di trasmissione, da madre in figlia, di conoscenze e abitudini alimentari.
Proprio ieri sera, Mirella, mia moglie, dopo una giornata trascorsa insieme a ripulire il pascolo sulla Sèla di Recudì, al rientro a casa ha messo a cuocere sul fornello una pentola di latte intero, munto la mattina stessa, a cui ha poi aggiunto farina di mais, per concludere la giornata in piena immersione nella storia locale di un passato nemmeno troppo lontano. Un preparato dai sapori antichi e semplici, espressioni del lavoro rurale diretto e concreto delle famiglie contadine che hanno saputo mantenere viva una concreta relazione con la terra. Abbiamo gustato nello spirito quel piatto fumante, in grado di riscaldare il cuore e la memoria, non solo lo stomaco.
Un boccone dopo l’altro, accerchiando col pirù quella deliziosa polentina sino
alla sua totale consumazione, ci siamo sentiti parte di un’antica alleanza
sociale ed economica con il territorio, dove passato e presente si intrecciano
in una relazione di continuità. Dietro quella polentina c’è tutto il nostro
lavoro, prodotto di un legame vivace con l’ambiente vissuto e calpestato
quotidianamente, ma anche quello di nostro figlio, che produce latte e formaggi
nella sua azienda di Recudino, e pure quello dei nostri amici Scotti di
Mapello, noti produttori di farina di mais e di buon vino. È una cucina non
avulsa o estranea alla realtà – come quella degli alimenti assemblati nel
supermercato, con piatti sconosciuti, senza un rapporto specifico con il luogo do produzione
e di lontana provenienza – ma affine al lavoro della terra nello spazio
prossimo della contrada. I cibi del territorio si raccontano.
Non sono solo gli ingredienti o i bravi cuochi a fare dei buoni piatti, ma concorrono pure le circostanze e il contesto nel quale essi rappresentano una marcata espressione. Nel gustare lentamente la nostra polticella, ci siamo sentiti parte integrante del popolo rurale che continua a vivere e a lavorare, anche nelle difficoltà. Non era la pult cotta sulla stufa economica, profumata di legna, e nemmeno quella preparata nello stegnàt appeso alla sósta del camino, affumicata e a volte pure attaccata dalla polvere di fuliggine, ma si è rivelata ugualmente portatrice di manifesta bontà e forte calore, ben oltre l’aspetto sensoriale di un gusto sopraffino, come la fiamma scoppiettante sprigionata dal focolare lì appresso. La pult si fa storia, narrazione vivente di esperienze trascorse e attuali, sintesi della vita di famiglia e di villaggio che ci riporta direttamente al medioevo, ma nel contempo ci proietta nel futuro, con un ricco bagaglio sapienziale alle spalle e di grandi potenzialità.
Ci auguriamo che anche il mondo della ristorazione sappia cogliere le potenzialità culturali della gastronomia locale, valorizzando e promuovendo i piatti della tradizione, con cibi nostrani frutto del lavoro degli artigiani del gusto che vivono e lavorano nelle nostre valli ancora troppo spesso in condizioni di resistenza. Non come quella volta, oltre vent’anni or sono, quando abbiamo dovuto insistere con un noto ristoratore locale perché ci portasse un piatto di pult: non riusciva a comprendere il significato dell’insolita richiesta, che all’inizio era stata interpretata quasi un’offesa alle capacità culinarie del locale; alla fine il piatto di pult venne servito al tavolo dei commensali, ma la decisione arbitraria del cuoco di aggiungervi del burro - ti ricordi, Cesare? - per dare vigore a un piatto a suo giudizio troppo semplice e banale, forse anche di difficile e sofferta reminescenza, ne aveva alterato irrimediabilmente il sapore…
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