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NELLA PICCOLA MISSIONE DI SCHAAN...

 

Più volte, nel corso degli ultimi anni, ho raggiunto Don Egidio Todeschini nella sua residenza di Schaan, la cittadina alpina del piccolo Stato del Liechtenstein, dove il caro amico svolge da circa ventitré anni il suo prezioso apostolato presso la Missione Cattolica Italiana, pure sede di delegazione consolare. Egli aveva in precedenza operato, quale prete fidei donum incardinato nella diocesi di Bergamo, nelle analoghe Missioni di Yverdon, Morges, Herisau. La sua è stata, e continua a essere tuttora, una vita dedicata all’emigrazione: prima bergamasca, quindi italiana, ora vissuta in una dimensione multietnica nella Confederazione d’Oltralpe e nei territori confinanti di lingua tedesca.

In poco meno di quattro ore ho percorso, rinchiuso nell’autovettura condotta magistralmente dall’amico Maurizio, i circa trecentocinquanta chilometri di distanza che mi separano dalla meta finale, risalendo l’autostrada che da Chiasso prosegue verso la Svizzera interna, in direzione di Zurigo e San Gallo, con una modesta deviazione a levante verso la Valle del Reno, dove è incastonato, compresso tra la Svizzera e l’Austria, il Principato del Liechtenstein, un territorio caratterizzato da paesaggi di montagna, villaggi e castelli medioevali connessi da una fitta rete di percorsi viari. Cullato da un’andatura morbida e costante, come sull’onda di lievi movimenti che conciliano il sonno, il pensiero vaga nel tempo e nello spazio dei paesaggi mutevoli della Via Mala, con forre e cime, profondi canaloni ed enormi affioramenti rocciosi, levigati nel tempo lontano dal ghiacciaio e dalle acque del Reno, gravitanti a strapiombo sulla strada che s’insinua tra le pieghe delle montagne come un lungo serpentone d’asfalto. Colonie di pini e abeti s’inerpicano, a gruppi, anche sui versanti più scoscesi, occupando le porzioni di suolo meno ospitali e assai impervie. Qualche albero isolato ha ancorato le sue radici tra le rocce, affacciato sul precipizio di profonde gole dalle pareti quasi verticali. Un vero spettacolo della natura.

Lasciate alle spalle le cittadine di Lugano e Bellinzona, capisaldi ticinesi, l’autovettura continua a macinare chilometri e si addentra con prepotenza nel territorio dei Grigioni, diretta verso il valico alpino del San Bernardino. Scorrono in successione continua davanti ai miei occhi, come tanti fotogrammi di un piacevole film dalla trama avventurosa, porzioni di territorio montano ricche di incantevoli dettagli naturali e antropici, che invitano a fermarsi per essere colti e impressi nella memoria, per ammirare prospettive particolarmente emozionanti, ma soprattutto in grado di ripagare la decisione di affrontare un viaggio impegnativo. Rimango affettivamente coinvolto da un paesaggio trasparente, pulito, ordinato: non un sacchetto di plastica abbandonato al margine della strada, non un rudere a disturbare la regolarità di un ambiente assai composto, ma una sequela infinita e continua di stallette e piccoli fienili di pietra e legno, pascoli e boschi disseminati in spazi aperti distribuiti un po’ dovunque, senza soluzione di continuità, a testimoniare la presenza trascorsa e attuale dell’uomo. Tutto, all’intorno, pare funzionale e “sostenibile”, anzi si colgono con facilità le diverse componenti di un grande ecosistema montano. Anche lo stesso serpentone d’asfalto, sul quale rotola la nostra autovettura, costituisce un elemento organico e funzionale dell’ordine delle cose: non disturba, ma delimita e bene definisce nel contesto lo spazio per il transito delle persone e delle merci.

Percepisco l’immane lavoro, prodotto per lo più da braccia di immigrati italiani, per la realizzazione dell’importante infrastruttura viaria e delle molte altre vie di comunicazione aperte nell’arco alpino, soprattutto quando si è trattato di costruire gallerie e lavorare assiduamente dentro le viscere della terra. La gloriosa stagione dei piccoli e grandi trafori, che tra il diciannovesimo e il ventesimo secolo ha saputo mettere in relazione diversi versanti opposti delle Alpi, affiancando i tradizionali valichi e passi in quota e incapsulando dentro la viva roccia importanti tracciati viari e ferroviari, ha contribuito decisamente a ridefinire e rafforzare uno spazio europeo unitario e interconnesso. L’asse stradale Chiasso-Zurigo ha rappresentato nel passato un’importante rotta migratoria per centinaia di migliaia di lavoratori italiani, in cerca di occupazioni varie nella Svizzera interna: contadini e boscaioli, minatori e muratori, operaie e addette ai servizi di accoglienza in alberghi, ristoranti, case private,… Viaggi della speranza e del sacrificio; duravano diversi giorni per affrontare distanze oggi decisamente trascurabili, mentre sino a tutta la prima metà del secolo scorso costituivano un considerevole impegno economico e dispendio di tempo.

Al giorno d’oggi la linea di confine dello Stato è poco percettibile, se non fosse per l’intento al dovere di qualche ligio e curioso doganiere, mentre un tempo quella linea rappresentava la frontiera, un limite invalicabile. Noi l’abbiamo colta a malapena da alcuni segnali esterni e da un modesto rallentamento del traffico: nessuno ci ha fermati, nemmeno per le ovvie e attese ragioni sanitarie sul piano del contenimento della pandemia in corso, contro il proliferare delle contaminazioni. Per i nostri emigranti l’automobile era un lusso che non si potevano permettere e i loro spostamenti avvenivano soprattutto su rotaie; il treno costituiva il principale mezzo di trasporto popolare collettivo. A Chiasso il treno italiano si fermava, non poteva andare oltre: scendevano colonne di persone che si mettevano in cammino, con valigie, zaini e fardelli in spalla e nel cuore; venivano indirizzate - uomini da una parte e donne dall’altra - dentro ampi e separati stanzoni per sottoporsi alla visita medica di pessima fama, umiliante e imbarazzante, senza la quale il viaggio non poteva proseguire. Poliziotti, guardie di frontiera e doganieri, dalla cruda parlata tedesca di non lontana e triste reminiscenza, impartivano ordini e davano indicazioni dall’incomprensibile significato, ma ugualmente efficaci. La Svizzera aveva bisogno di lavoratori e, di conseguenza, quanti non erano in buone condizioni di salute venivano rimandati a casa. In questo caso si consumavano i drammi più difficili da accettare. Per gli altri il viaggio verso la Svizzera interna sarebbe proseguito sul treno elvetico e dentro quei vagoni silenti si respirava un clima di preoccupazione e sgomento. Molti connazionali, reduci dalle diverse campagne belliche durante la Seconda Guerra Mondiale, si apprestavano ora a combattere un’altrettanta cruenta e dura battaglia sul fronte del lavoro.

I tempi sono cambiati; oggi comode vie e moderni mezzi di trasporto consentono di andare e tornare a Bergamo in giornata, raggiungendo qualsiasi coordinata geografica della Confederazione d’Oltralpe; inoltre condizioni di sufficiente benessere favoriscono il mantenimento di relazioni culturali e scambi commerciali. Mentre il viaggio continua e, superato il valico del San Bernardino ricoperto da uno spesso manto di neve, discendiamo l’altro versante, continuo a consumare pensieri al sacco, spontanei, silenti, non mediati, che rinvigoriscono la memoria e tessono continue relazioni storiche e sociali, stimolate dall’osservazione di ambienti spettacolari in continua e frenetica successione mutevole fuori dal finestrino. Don Egidio ci sta aspettando per esaminare con accuratezza la sua biblioteca, separando alcune centinaia di volumi di fotografia e di storia/cultura bergamasca, destinate ad implementare il patrimonio bibliografico del Centro Studi Valle Imagna: i primi confluiranno nella Biblioteca Costantino Locatelli, dove faranno da compendio all’Archivio delle fotografie, costituito da diversi fondi, tra i quali spicca anche quello del missionario-fotografo (diversi reportages di viaggio dai cinque continenti), mentre i secondi arricchiranno la sezione di cultura locale della Biblioteca Carlo Locatelli di Valle Imagna. L’imminente trasferimento di Don Egidio in un’altra città della Confederazione elvetica, resosi opportuno a seguito del nuovo incarico di Coordinatore nazionale delle Missioni Cattoliche Italiane della Svizzera, ha anticipato la riorganizzazione e ricollocazione del patrimonio librario in linea con gli interessi di ricerca e gli obiettivi del sodalizio culturale.

Lassù, nel piccolo Stato del Liechtenstein, situato nel cuore dell’Europa, le frontiere continuano a essere  attraversate dai popoli, non solo da Principi, soldati o emigranti, che intrecciano storie personali e collettive in grado di costruire solide fondamenta socio-economiche per il progresso comune. Nella piccola Missione di Schaan si respira un’aria di casa, decisamente familiare, alimentata da grandi aperture sul mondo, capaci di generare progetti di solidarietà e collaborazioni internazionali. Intanto Violetta, proveniente dalla Polonia, sempre gentile e premurosa, assieme suo marito Cesare non manca di farci sentire a nostro agio. In quella casetta, animata dalla presenza di Don Egidio, si sono incontrate tante persone, provenienti da contesti diversi, espressioni di culture e di esperienze anche di lontana provenienza. Ora è giunto il momento di fare ritorno a Bergamo con l’automobile carica di un patrimonio considerevole di cultura, tesoro di amicizia e di conoscenza, seme di responsabilità per generare altri progetti di memoria collettiva.


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