Alle preoccupazioni circa l’estensione e l’esito finale del feroce attacco inferto al mondo intero dalla pandemia da Covid 19, fanno eco in parallelo le notizie allarmanti sull’andamento della nostra economia. Non mi riferisco solo ai dati nazionali, ma ho sott’occhio soprattutto la realtà degli esercizi pubblici di prossimità e delle imprese commerciali della mia valle. Partecipo emotivamente alle loro difficoltà. C’è sofferenza negli occhi dei ristoratori. Stiamo vivendo un clima di estrema confusione. Ci ritenevamo un Paese tra i più sviluppati e organizzati al mondo e invece, come al risveglio da un grande sogno, ci siamo riscoperti di matrice sudamericana. Abbiamo voluto credere nelle eccellenze sanitarie del Belpaese, ma improvvisamente ci siamo riscoperti carenti della medicina del territorio, la Cenerentola del sistema sanitario nazionale e, ancora oggi – fine ottobre 2020 – scarseggiano addirittura i vaccini antinfluenzali e non si sa bene dove andare a reperirli. Assistiamo impotenti al fluire continuo di fiumi di parole per dire poco o niente, o meglio, le solite cose, che rimescolano in continuazione le carte in tavola, mentre gli schermi televisivi tengono banco e le prime pagine dei giornali sfornano tutte le mattine titoli sensazionali che interpretano e alimentano ulteriormente la drammaticità del momento. Nel frattempo le piazze s’infiammano, si diffonde l’odore acre dei lacrimogeni e il governo, non sempre bene interpretando il disagio sociale, che non può essere calmierato solo con fondi di ristoro (gli esercenti chiedono lavoro, non denaro), attribuisce le colpe alle frange estreme dei movimenti antagonisti, o addirittura alla mafia. Un copione già scritto.
In
una recente intervista, il ministro Franceschini ha affermato che il leitmotiv degli ultimi provvedimenti,
approvati con Decreto del Presidente del Consiglio dei Ministri, è il tentativo
di contrazione della mobilità: coprifuoco serale, chiusura anticipata di bar e
ristoranti, porte sbarrate per piscine e palestre, didattica a distanza, invito
a rimanere a casa,… dovrebbero servire per contenere gli spostamenti non
essenziali delle persone. E’ quanto ha affermato pure Conte nella conferenza
stampa serale di martedì 27 ottobre: chiudiamo i ristoranti per decongestionare
i trasporti pubblici, dimenticando che autobus e metropolitane sono carichi
soprattutto la mattina, dalle ore sette alle nove circa, da studenti e lavoratori.
Chiudere, isolare, è quanto di più immediato si possa
fare, senza bisogno di programmazione. Annullando così, tout curt, con le possibilità di veicolazione del contagio, anche
i notevoli sforzi che i vari protagonisti della vita economica e sociale del
territorio (ristoratori, baristi, insegnanti,…) hanno messo in campo per
assicurare la sicurezza dei cittadini, adeguandosi alle nuove norme. I
cittadini si aspettavano qualcosa di più, poiché la mobilità non va ridotta o
sospesa, uccidendo così l’economia, ma piuttosto gestita, governata,
migliorata, in relazione alle circostanze imposte dalla situazione contingente.
C’è una differenza abissale di prospettiva. E nel contempo si scatenano a vista
d’occhio le contraddizioni. Lo Stato obbliga i ristoratori ad abbassare le
saracinesche, per evitare assembramenti, imponendo un caro prezzo alle
molteplici espressioni del lavoro, quando ad esempio i servizi del pubblico
trasporto continuano ad essere una bolgia, con persone ammassate, spintonate,
strette l’una a ridosso dell’altra, gomito a gomito, e in condizioni di grande
confusione. Altro che distanziamento sociale! Le immagini televisive della
metropolitana di Milano nelle ore di punta sono assai eloquenti Ma, forse,
nella grande metropoli, non si può fare a meno. Non lo so. Ciò che percepisco,
invece, è che in Valle Imagna, come pure negli altri territori prealpini, il
problema del trasporto pubblico, onde evitare quelle tristi immagini di gruppi
di persone all’ammasso, soprattutto giovani studenti, poteva essere
tranquillamente risolto mediante la messa in strada di mezzi aggiuntivi,
attivando eventualmente anche gli autobus da rimessa dei piccoli conducenti
locali, i quali, tra l’altro, in questo periodo sono in sofferenza, a causa del
venir meno dei principali servizi di supporto agli esercizi
turistico-recettivi. La pandemia non ha fatto altro che mettere in risalto il
disequilibrio di sistema nei trasporti pubblici locali. Evidentemente è più
facile chiudere, piuttosto che riorganizzare, scaricando così sulle famiglie e
le piccole attività economiche il peso della crisi socio-sanitaria.
C'è anche una seconda riflessione da fare. Governare la mobilità significa anche comprendere
che le dinamiche dei grossi centri cittadini sono strutturalmente dissimili da
quelle che si sviluppano nei piccoli centri e nei villaggi montani, i quali
meritano attenzioni diverse, nel rispetto delle autonomie locali. Distanze,
tempi di percorrenza e modalità di fruizione diversi. Soprattutto in una
situazione difficile, come quella che stiamo vivendo, stretti nella morsa tra
salute pubblica e crisi economica, la normativa andrebbe declinata e modulata
in relazione ai caratteri e alle diverse espressioni della mobilità nei singoli
territori: non ha senso applicare la medesima norma al ristorante in centro a
Milano, magari situato nei luoghi abituali della movida, e alla piccola
trattoria di montagna. Ci sono differenze sostanziali che non possono essere
trascurate. Gli esercizi commerciali e pubblici nelle aree montane vivono già
sui piccoli numeri e stanno resistendo da anni contro i colpi inferti da norme
di carattere generale, di natura urbanocentrica, sorde e cieche nei confronti
della esistenza dei centri minori. Gran parte di tali attività sono già allo
stremo delle forze e l’obbligo di chiusura serale alle ore diciotto rischia di
rappresentare per molte di esse il colpo di grazia. I modesti esercizi pubblici
del villaggio, di ridotte dimensioni, sul modello delle antiche osterie, non
sono fonte di assembramento e hanno messo in atto le condizioni di sicurezza
previste. Sia l’Antica Locanda Roncaglia che la Bibliosteria di Cà Berizzi
(utilizzo questi esempi per citare le due infrastrutture recettive che stanno
molto a cuore al Centro Studi Valle Imagna) offrono ciascuna dai trenta ai
quaranta posti a sedere, debitamente distanziati, e costituiscono una preziosa
valvola di sfogo per quanti vivono in condizioni di isolamento nelle città e
non vogliono cadere nella trappola del contagio di massa. La montagna è lo
spazio per antonomasia del distanziamento e gli esercizi pubblici distribuiti
sulla cintura pedemontana delle valli prealpine orobiche possono svolgere una
reale ed efficace funzione decongestionante rispetto alle principali
concentrazioni urbane della piana lombarda. Sono locali “fuori porta” in
ambienti ancora autentici, espressioni dei rispettivi territori, poco
frequentati perché poco conosciuti, sicuri e tranquilli, dove prevale una
cucina casalinga ricca di prodotti stagionali e piatti locali. Queste realtà, a
maggior ragione, faticano a comprendere il perché a mezzogiorno possono
lavorare, ma non la sera, considerando che la maggior parte di esse sono attive
soprattutto durante il fine settimana e in orario tardo pomeridiano e oltre.
Si legge sulla pagina Facebook della Bibliosteria di Cà Berizzi: “La nostra proposta per fare cose belle nel rispetto del nuovo decreto? Una passeggiata all'aria aperta per i boschi, la visita alle belle contrade qui intorno, le nostre torte e i nostri taglieri di salumi e formaggi per una merenda in BibliOsteria e la possibilità di prenotare la vostra cena da portar via, con squisiti piatti tradizionali e vini bergamaschi. Seguiteci per conoscere i nostri pacchetti e altre novità che vi aspettano! Siamo aperti dal venerdì alla domenica dalle 10 alle 18, anche per pranzo”. Gli altri giorni l’apertura avviene su prenotazione. Anche Sara e Robi della Locanda Roncaglia propongono il servizio da asporto, ma ciò evidentemente non basta per coprire i costi di un’attività complessa, come è quella della ristorazione. Con essi soffrono pure i piccoli produttori locali, che costituiscono il principale indotto, poiché proprio nei ristoranti del territorio avevano validi interlocutori. Anch’essi sono in cerca di soluzioni alternative, nell’immediato, dato che il cibo è un bene deperibile, non immagazzinabile, soprattutto quando è l’espressione di attività artigianali tradizionali, che non conoscono l’uso di conservanti. Si costituiscono in questo modo catene di solidarietà.
Francesco, titolare dell’azienda agricola Recudino, in Alta Valle Imagna, propone i suoi formaggi, prodotti in azienda con latte di vacche grigio alpine e pecore massesi da lui stesso allevate, non solo attraverso il piccolo negozio aziendale, ma organizzando tutte le settimane – il mercoledì pomeriggio – la consegna di stracchini all’antica e altri formaggi, anche pecorini, in città, presso il domicilio delle famiglie che ne fanno richiesta. Non ha inventato nulla di nuovo, ma si è semplicemente inserito nell’antica mobilità dei montanari, i quali producevano sì i loro prodotti agricoli e artigianali in montagna, ma poi scendevano in città, a Bergamo, ma pure altrove, a venderli. Così facevano, ad esempio, le oaröle di Fuipiano, che si recavano sino nella città di Lecco, oltre il Resegone, con i loro caagnöi pié de öf, oppure i contadini più intraprendenti della valle, quando scendevano a la Fira de Bèrghem per proporre gàbie, dèregn, rastèi, scörlòcc,… e altri attrezzi e utensili di uso agricolo e domestico, costruiti da loro stessi durante le lunghe serate invernali. Si trattava di trovare uno sbocco commerciale alle diverse attività rurali, necessarie per il sostentamento delle rispettive famiglie, soprattutto nei periodi di carestia, quando molte persone esaurivano la loro esistenza nello spazio della contrada rurale. Mentre, per i più, l’attività commerciale è rimasta la parte terminale della loro piccola filiera produttiva, in vista di procacciare reddito integrativo, per altri è diventata il lavoro principale, che ha dato vita a significative tradizioni professionali. Come nel villaggio dirimpettaio di Costa Valle Imagna, dove c’erano diverse famiglie di commercianti ambulanti: formagiàcc (formaggi), botonàcc (bottoni e filati), ciocolaté (cioccolati e dolciumi) e palé (baslòcc e scörlòcc, attrezzi agricoli, pegassì, falci,…). Molte di queste attività, poi, col passare del tempo, si sono sganciate gradualmente dal territorio valligiano di provenienza, insediandosi altrove, alla Bassa e nei Paesi d’oltralpe, colonizzando in alcuni casi i mercati di destinazione. La storia continua…
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