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LA LEGGE DEL DEGRADO

Scrittura e libertà.

    C’è chi scrive per mestiere, come fa il giornalista, e chi all’inseguimento di ambizioni letterarie. Non mi sento di appartenere né all’una né all’altra categoria, pur annoverando tra gli amici esponenti autorevoli di tali prestigiosi ambiti. Scrivo per dare sfogo alla necessità di comunicare sia con me stesso che con la realtà che vivo ogni giorno e nella quale sono immerso, profondamente dedito all’avventura della vita, durante il suo dispiegarsi tra le mille contraddizioni di tutti i giorni, nel solco accidentato e cosparso da una moltitudine di imprevisti e difficoltà. Scrivere è un ottimo esercizio per riflettere e per comunicare. A volte non ne posso proprio fare a meno, per dare vita a speranze e affinare semplici intuizioni, anche per scaricare delusioni e rabbie. Canto, con questa penna compressa tra il pollice, l’indice e il medio, il desiderio di vivere, la ricerca appassionata della mia storia immersa in quella delle generazioni passate, sperimento il tentativo di migliorare la condizione umana, soprattutto nei suoi aspetti sociali e di natura collettiva. Respiro nelle azioni quotidiane la nostra imperfezione, ma rifletto anche il costante anelito verso qualcosa di più, che attende al progresso della condizione umana delle popolazioni rurali, e intanto, il più delle volte inconsapevolmente, continuo a scavare nella mia esistenza, in quella della mia famiglia e dell’umanità intera. Ricordo il dramma di Oskar Schindler, al termine del film della sua vita, per non aver fatto abbastanza: sarebbe bastato offrire una semplice spilla per salvare una persona in più! È il peso della responsabilità personale - ovviamente trasferita ai vari livelli - che nell’espressione del libero arbitrio trova la sua più elevata espressione. In alcuni frangenti la scrittura diventa persino un efficace strumento di liberazione per affermare verità misconosciute, una modalità di denuncia per dare sfogo a legittime indignazioni, un’opportunità per dichiarare la propria collocazione nel mondo. Scrivere è come fotografare in sequenza le emozioni di un istante, portare a galla problemi e speranze, fissare sulla carta i propri pensieri, far sì che riflessioni spontanee e considerazioni mediate rimangano nel tempo e vengano consegnate alla storia nelle sue varie declinazioni. Una parola dopo l’altra, nel flusso continuo dell’inchiostro, come le note di un componimento musicale, formano una melodia e si articolano nel testo in modo tale da trasmettere idee e pensieri, sentimenti ed emozioni. La scrittura è ricerca di consapevolezza dell’esistenza. Al giorno d’oggi si legge poco, ma si scrive ancora meno e i modelli della comunicazione globale, immediata e istantanea, veicolati attraverso i media ormai entrati a far parte della vita personale di tutti noi, privilegiano forme espressive sintetiche e pensate per essere consumate in un istante, nella mediocrità della vita frenetica, non certo per durare nel tempo.

In Valle Imagna

In questo momento scrivo per rendere pubblica una storia semiseria, ma ugualmente pericolosa, realmente accaduta, di abbandono “forzato” di un pascolo montano. Non rivelo né il nome dell’imprenditore agricolo coinvolto, né la località di monte, in alta Valle Imagna, dove il fatto è accaduto, per non creare pregiudizi di sorta ad alcuno. La situazione è talmente paradossale che anche le parole sembrano essere prive di significato e rischiano di apparire solo semplici segni oscuri e indecifrabili. Tanto mi pare lontana la realtà dal buon senso. Mi preme richiamare l’attenzione sul fatto in sé, degno di essere citato quale pratica “protetta” di abbandono della montagna. Evviva la forestazione selvaggia, con buona pace dei burocrati! L’area in questione ha un’antica vocazione a prato, pascolo e castagneto, come risulta anche dagli antichi catasti (Napoleonico, Austro-ungarico e del Regno d’Italia), e pure nel Piano di Governo del Territorio del Comune mantiene una dichiarata vocazione agricola. Generazioni di coltivatori diretti hanno vissuto e lavorato in quell’isola colturale, plasmandone il suolo, arricchendola di servizi e infrastrutture agrarie, rendendola così conforme alle attese delle piccole ma importanti produzioni zoo-casearie locali, organizzate sempre su base familiare. Una parte di quell’oasi produttiva ha subìto nel passato un lento processo di incuria, per negligenza nei vari lavori di manutenzione e tenuta degli ambienti rurali, a seguito del venir meno di alcune attività pascolive e agricole, causando l’avanzare incontrollato e disordinato di rovi e arbusti di nessun interesse forestale rendendo così inospitali e parzialmente inaccessibili ambienti rurali un tempo preziose fonti di sostentamento economico. L’utilizzo dell’area pascoliva è documentata dalla presenza di diverse infrastrutture agrarie di monte tuttora presenti e operanti: casello con fontana, un altro àlbe nel pascolo scosceso per l’abbeveraggio del bestiame in libertà, stalla con fienile in fondo al pascolo per il ricovero di bovini e ovini, fitta rete di sentieri tracciati in orizzontale nel pascolo scosceso da bovini e ovini d’alpeggio. Una porzione di versante è stata resa inospitale a causa della caduta accidentale di alcuni castagni monumentali, mai rimossi, le cui folte ramaglie hanno sottratto ampie aree pascolive: dopo aver provveduto all’asportazione del legname in marcescenza, il giovane allevatore intende piantumare nuovi castagni, così da salvaguardare e ridare vigore alla selva castanile. Un’altra area del citato pascolo è stata piantumata, oltre venti anni orsono, con alcune querce americane e da una popolazione di larici montani, allo scopo di ottenere legname d’opera: queste essenze sono state recentemente tagliate in vista di realizzare un ricovero provvisorio per il bestiame. La scelta del giovane di insediare la sua azienda agricola in quel contesto familiare, infatti, è stata sostenuta proprio dalla presenza in loco di ampie aree a pascolo per bovini (manzette) e ovini, irrinunciabili per la prosecuzione dell’attività e inserite a pieno titolo nel piano aziendale. La pulizia di pascoli, la manutenzione e la tenuta delle selve castanili, il taglio di rovi e della vegetazione infestante, per restituire spazio vitale alla cotica erbosa, sono solo una parte delle attività aziendali finalizzate a restituire a tutto il versante la sua antica e ancora preziosa capacità produttiva. Duro impegno che non si è esaurito in tempi brevi.


Un pascolo da presidiare o un bosco in formazione da tutelare?

In condizioni normali il comportamento del giovane montanaro sarebbe stato oggetto di esaltazione per meriti e virtù alla base di tanto difficile e faticoso lavoro, per di più in un contesto affatto remunerativo, dove alla base emerge il forte radicamento dell’individuo alla montagna e alla tradizione familiare. No, nessun elogio, ma in compenso è sopraggiunto un verbale di accertamento e trasgressione emesso dall’autorità di vigilanza forestale per “ripulitura di bosco” mediante il pascolo di greggi (poche decine di capi). Mi starete certamente chiedendo il perché di tale infrazione. Semplicemente perché - si legge nella relazione – ai sensi delle normative regionali forestali, una superficie viene classificata a bosco in base allo stato di fatto al momento del sopralluogo, non rilevando quanto definito nel catasto. Quindi, nonostante l’area sia stata sempre utilizzata a pascolo, sin da antica data, a farla da padrone sembra essere la recente colonizzazione spontanea di rovi e specie arbustive, che gli agenti accertatori hanno “valutato” essere in atto da più di quindici anni. Porte aperte all’abbandono, dunque! Non solo: anche il castagneto produttivo, se colonizzato spontaneamente da specie arbustive, quando il processo è in atto da oltre quindici anni, viene considerato bosco. L’autorità di vigilanza suggerisce al povero malcapitato agricoltore di chiedere alla Comunità Montana la trasformazione dell’uso del suolo da bosco a pascolo, nonostante sulla cartografia urbanistica e catastale tale area sia già classificata a pascolo e castagneto da frutto. I soliti grovigli all’italiana! Roba da non credere! Ho visitato personalmente l’area in contestazione e sul versante scosceso ho intravisto solo vecchi castagni, oltre ad alcune piante di larice e di frassino capitozzate (oggetto di piantumazione per ottenere dalle prime legname d’opera, dalle seconde le foglie tanto prelibate per l’alimentazione del bestiame, come era in uso fare nel passato) e soprattutto tanti arbusti, frutto di una colonizzazione spontanea recente. Sono rimasto meravigliato da tanto lavoro incompreso, entusiasta di un disegno di rinnovamento ambientale presente nei progetti coraggiosi del giovane allevatore (in linea con l’uso e la vocazione tradizionale del luogo), preoccupato della cecità di una normativa che è riuscita ad elevare a legge il degrado. Il resto è opera di diligenti agenti capaci di mettere a verbale e sanzionare il ripristino di poche decine di metri quadrati di pascolo, situati al centro di un’ampia area pascoliva. Perché di così poco si tratta.


Degrado ambientale connesso all'abbandono dell'uso tradizionale del suolo

Evviva la rinaturalizzazione selvaggia, oggi particolarmente tutelata dalle autorità, nonostante vagonate di vacue parole al vento cerchino di occultarla. Pratiche sottaciute di rewilding mai ufficialmente dichiarate, ma di fatto sostenute dalla normativa. Anziché colpire quanti ripristinano un pascolo invaso da rovi e sterpaglie che avanzano, si sapesse almeno spendere tempo ed energie per tutelare e valorizzare i nostri ambienti fortemente antropizzati che hanno caratterizzato la vita delle persone e il volto dei luoghi nei secoli scorsi, anzi sino a pochi decenni or sono, molti dei quali ancora abbandonati, per sottrarli all’oblio in cui versano! Nessuno dice niente di fronte agli evidenti fenomeni di degrado e abbandono dell’ambiente, ma quando qualcuno cerca di porre un freno all’avanzare incontrollato del bosco, al proliferare di rovi e arbusti nei pascoli, allora incominciano i problemi e gli operatori devono muoversi con prudenza per non incappare nelle maglie di una paurosa e sorda burocrazia. Il bosco è forse la componente dell’ambiente oggi diventata centrale nei territori montani, poiché un certo ambientalismo cittadino lo ha considerato l’elemento che per antonomasia rappresenta la sfera della naturalità. Una vasta normativa, a vari livelli, gravita attorno alla centralità del bosco, il quale rappresenta quassù il punto terminale dell’abbandono dell’attività agricola.


Locatello e le sue antiche contrade 

Il bosco avanza in continuazione, riconquistando quelle aree che un tempo gli erano state sottratte per le coltivazioni, e si avvicina sempre di più alle contrade, anzi in molti casi ha già annullato e avvolto tra le sue folti chiome diversi löch sparsi sui versanti, un tempo preziosi presidi dell’attività umana, oggi diventati persino irriconoscibili. I boschi aumentano, mentre diminuiscono le superfici a campo e a prato stabile, a pascolo e a castagneto, rendendo così la montagna sempre più isolata e tributaria della Bassa per quanto concerne le produzioni foraggere. Cartoline e fotografie storiche del primi decenni del Novecento documentano il versante orografico sinistro della Valle Imagna, sul fronte dei villaggi distribuiti a mezza costa da Rota a Locatello, da Corna a Selino Alto, da Berbenno sino a Capizzone, prevalentemente occupati da campi, modellato da balze terrazzate, lavorato a prato stabile e pascolato, dove case e stalle e contrade coronano un paesaggio decisamente antropizzato, simile a un grande giardino. Attualmente, invece, prevalgono le zone boscate. Occorre invertire la rotta, ma urgono chiare politiche rurali. Non ho mai visto una infrazione comminata per l’incuria o l’abbandono di un campo, oppure per la mancata tenuta di un prato o di un pascolo, ma quando si tratta di operare in una zona boscata, anche solo in una piccola frazione presunta tale e costituita di poche decine di metri quadrati, allora incominciano a sorgere i problemi e il sistema si mette in moto per proteggere le proprie politiche forestali. Il manifesto processo di dequalificazione di diverse aree montane (campi che diventano prati, prati che diventano pascoli, pascoli che diventano boschi, boschi abbandonati a loro stessi e all’incuria dell’uomo,…) continua a determinare un impoverimento complessivo del contesto rurale. Punti di vista differenti si confrontano e non sempre la mediazione è a portata di mano: quello che per il giovane imprenditore è un pascolo da ripulire e riordinare, per l’agente forestale è un bosco in formazione da tutelare. La vita è una continua scelta e davanti a ciascuno di noi si aprono in continuazione possibili percorsi da intraprendere, molti dei quali si escludono a vicenda, indirizzati verso mete distinte. Ci sono scelte di campo da effettuare, non delegabili ad altri o all’autorità. Non ho dubbi a sostenere il lavoro e la “visione” ambientale del nostro giovane imprenditore agricolo. Quando cercano di porre un freno all’avanzare incontrollato del bosco e al proliferare di rovi e arbusti nel pascolo, i contadini devono purtroppo muoversi con prudenza, per non essere considerati detrattori dell’ambiente. Così gira il mondo al giorno d’oggi.


Veduta sul versante orografico sinistro della Valle Imagna (primi decenni del Novecento)

Ci vuole coraggio per sostenere l’insediamento di giovani agricoltori e allevatori in montagna! Incominciamo a riservare loro un po’ di comprensione e a ricercare possibili canali di comunicazione. Mentre io continuo a riempire questo foglio con segni d’inchiostro, anch’essi stanno “scrivendo” la loro storia, impugnando tra le mani ben altri strumenti, tali da imprimere nel suolo segni tangibili del loro insostituibile e costante lavoro quotidiano di umanizzazione del Creato. Spesse volte incompreso.

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