Un caro amico un giorno mi disse, mentre a bordo della stessa automobile cercavamo di immetterci, con estrema difficoltà, nel rondò dell’autostrada di Bergamo, aprendo un varco nel “muro” della lunga fila di automobili antistanti in corsa:
- Mi piacerebbe tanto obbligare il professionista che ha progettato questo svincolo a entrare e uscire in continuazione, per una settimana intera, dal rondò. Se non incidentato, ne uscirebbe pazzo!...
Allo stesso modo, a distanza di qualche anno, non mi dispiace l’idea di invitare gli amici così allarmati dal pensiero simbolico dell’asfalto (che peraltro calpestano tutti i giorni) e dalle sue astrazioni, quindi per principio contrari alla stabilizzazione del sedime viario che dall’Alta Valle Imagna, attraverso la Costa del Palio, conduce in Valsassina, a percorrere quella strada bianca per una settimana intera, su e giù di continuo alla guida di un trattore carico di legna, letame, anche animali, zigzagando qua e là per evitare buche e cedimenti, sobbalzando costantemente sul sedile e cercando di viaggiare possibilmente a monte, lontano da precipizi e ripidi versanti. Una vera condanna, che diventa persino pericolosa ogni qualvolta imperversa un temporale. Chissà che non cambino idea, soprattutto comprendano che la realtà è sempre complessa e articolata, non è mai a senso unico, esprime molte sfaccettature, è ricca di contraddizioni (che vivacizzano il contesto) e difficilmente va di pari passo con i sogni e i grandi ideali, anzi, di norma, è il frutto di continue, necessarie e difficili mediazioni. Che comprendano anche che, per continuare a vivere e a lavorare in montagna, occorrono ancora diversi servizi primari, strade sicure e confortevoli, acquedotti ed elettrodotti rurali, relazioni solidali e comunicazioni, opportunità economiche e condizioni di sicurezza sociale, a favore innanzitutto delle popolazioni residenti.
La montagna va governata da chi la vive, la abita, la lavora, la vuole conservare non sotto una campana di vetro, ma interpretare dentro le dinamiche sociali ed economiche quotidiane, dalle quali dipende la sua sopravvivenza e il miglioramento delle condizioni di vita. Abbiamo gli strumenti scientifici, tecnici, anche economici, per porre rimedio agli squilibri esistenti, che rendono la montagna deficitaria e marginale, e alle evidenti situazioni di degrado, così da facilitare la fruizione e la gestione di ambienti, luoghi e attività connesse alla vita stessa nelle quote alte, considerate in tutte le loro espressioni naturali e antropiche.
Degrado è il pascolo che diventa bosco, il prato che diventa pascolo, il campo che diventa prato, i cinghiali (presto anche i lupi) che sostituiscono sulle praterie montane le vacche e le pecore, la strada che diventa l’alveo di un torrente in piena e continua a scaricare nel pascolo sottostante la ghiaia di riporto, la stalla che diventa rudere, le cascine chiuse per sempre e abbandonate all’oblio, le antiche contrade che si spopolano… e via dicendo. Degrado è lo svilimento complessivo del territorio, quando diminuisce di valore e i suoi elementi costitutivi vengono deprezzati a causa di un processo continuo di dequalificazione e abbandono di estese aree rurali. La principale causa del deterioramento del contesto, sul piano della sua identità storico-culturale, è determinata dall’abbandono delle attività umane, soprattutto dal venir meno della presenza dell’uomo, che nei secoli passati ha modellato il volto dei luoghi, li ha caratterizzati e umanizzati, rendendoli consoni alle proprie attese e, grondanti di speranze, li ha assecondati e resi consoni a un disegno complessivo di residenzialità rurale.
Sin quando la montagna è stata al centro degli interessi sociali ed economici delle famiglie, che dal lavoro nei vari possedimenti hanno saputo garantire la sopravvivenza dei gruppi stabili, abbiamo registrato elementi di progresso e pure le aree più distanti e in quota si sono rivelate tutto sommato accoglienti. Tutto ciò ha richiesto molto lavoro e tanti sacrifici. Sin quando la montagna è stata il luogo prescelto dalle famiglie per i loro insediamenti e riferimento principale per l’esercizio funzionale di attività sociali ed economiche - non solo l’ambito idilliaco e bucolico presentato nei rotocalchi pubblicitari, quale sinonimo di bellezza, quiete, armonia, oppure lo spazio privilegiato per la passeggiata domenicale - sono prosperati servizi e infrastrutture a sostegno delle produzioni e della residenza. I versanti delle nostre valli sono attualmente caratterizzati dalla presenza di un’infinità di manufatti a servizio delle attività produttive e residenziali tradizionali, quali stalle, casèi, fontane, caalìre, tribuline, secadùr,… molti dei quali oggi abbandonati all’oblio
Non a caso il processo di depauperamento massivo di estese aree rurali è avvenuto nella seconda metà del secolo scorso, quando i fenomeni spinti dell’urbanizzazione, dell’industrializzazione, dell’emigrazione, della scolarizzazione hanno “saccheggiato” i contesti della montagna prealpina, in modo particolare quella prossima ai principali centri urbani lombardi, accaparrandosi le masse contadine da introdurre nella nuova città infinita dei consumi, introducendo nuovi modelli di sviluppo e organizzazione sociale. La montagna è stata così trasformata in una grande riserva rurale, dotata non più di vita propria, bensì in condizione di evidente subalternità, orbitante attorno ai principali contesti urbani e industriali. Per certi aspetti è diventata l’ambito prescelto dalle nuove masse urbane dove i nuovi “modernisti” cercano, in qualche modo, ripulirsi la coscienza e ricomporre i tasselli della propria personale consapevolezza, cercando di reinterpretare un idilliaco ritorno alle origini. Essi cercano di ricostruire in montagna un nuovo codice estetico e morale, sotto il profilo sociale e ambientale, che nelle città ormai è venuto meno. Una sorta di applicazione al contesto sociale e ambientale della teoria bipolare degli estremismi opposti: da un lato, negli agglomerati urbani e nel loro hinterland si rafforzano ed estendono gli spazi residenziali e dei servizi, inseriti in un contesto di fatto denaturalizzato e cementificato, mentre dall’altro, come sull’altra sponda, nel mare magnum degli ambienti rurali della montagna, vengono continuamente attuati tentativi di rinaturalizzazione. Si crea in tal modo una frattura verticale dove da una parte ci sono gli spazi per l’uomo, dall’altra quelli per la natura, spesso resi tra loro inconciliabili, dimenticando che uomo e natura hanno saputo costruire nel passato profonde interazioni e messo in atto antiche alleanze. Mentre nei principali centri urbani e nelle loro adiacenze si riversano in continuazione tonnellate di bitume e asfalto, senza che nessuno quasi se ne accorga, in montagna si grida allo scandalo quando si tenta an che solo di dare consistenza a una strada di collegamento tra tre valli, due provincie e diversi comuni,
Si allarga, a vista d’occhio, l’effetto forbice tra città e montagna: tanto più si vorrebbe la città e la sua periferia urbanizzata e ricca di servizi, quanto la montagna dovrebbe assumere la funzione di serbatoio di ossigeno, spazio libero e incontaminato. Siamo di fronte a un’evidente squilibrio nell’organizzazione sociale, per l’alterazione quali-quantitativa di opportunità sociali ed economiche, senza considerare la mancanza di coordinamento e di interazione tra i diversi servizi pubblici. Si stanno caratterizzando contesti sempre più distanti e poco comunicanti, trincerati ciascuno dietro diverse aspettative: mentre gli abitanti della città hanno bisogno della montagna, quale insostituibile linfa vitale dove recuperare il loro rapporto con la terra e l’ambiente, le popolazioni della montagna rivendicano servizi, relazioni, pari opportunità. Queste ultime vengono spesso isolate, nella non considerazione delle loro attese, per il mancato riconoscimento delle capacità di autodeterminazione e di autonomia, per le quali esse, nel passato, si sono battute con coraggio e, nel corso dell’ultimo millennio, dal medioevo ai tempi moderni, hanno conquistato territori e affermato l’esistenza di molte comunità. Quando i montanari tornano a guardare verso l’alto, volgendo le spalle alle pretese urbane di conquistare anche gli spazi di libertà in quota, ecco che drappelli di assertori della “rinaturalizzazione” si sentono offesi e gridano allo scandalo di lesa maestà, per danni irreparabili all’ambiente, si mobilitano e raccolgono firme nel tentativo di impedire la costruzione di nuove relazioni solidali tra le popolazioni delle terre alte.
Apprendo dai social media che sono
state raccolte quasi cinquemila firme contro la strada di collegamento tra la
Valle Imagna, la Valsassina e la Valle Taleggio, per bloccare – così dicono i
fautori della reazione – “l’asfaltatura del Resegone”, quando invece
l’argomento in questione riguarda la semplice sistemazione del tracciato viario
già esistente, mediante la sua messa in sicurezza e la stabilizzazione del
sedime, premessa infrastrutturale essenziale per il ripristino dei caratteri ambientali
dell’area coinvolta, servizio essenziale per quanti vivono e lavorano sul
versante. Quanto baccano per sollevare un problema inesistente. Si tratta,
infatti, di un’opera concreta di difesa ambientale e di messa al centro di un
territorio caratterizzato da una marcata identità storico-culturale di matrice
bergamina. Un'opera di interesse strategico, per una montagna che vuole tornare a guardare in alto e a pensare alla grande...
Non nascondo che mi piacerebbe analizzare i contenuti delle diverse posizioni, situate all’interno della composizione complessiva del quadro di coloro che si oppongono all’infrastruttura viaria, per conoscere provenienza e professione di ciascuno e capire quanti di essi vivono nelle valli e, tra questi, quanti lavorano sul territorio, in relazione a coloro che, pur rientrando la sera, svolgono le loro attività lavorative nei contesti urbani e industriali e, di conseguenza, in molti casi hanno instaurato una relazione di estraneità con le attività e le espressioni concrete e vitali dell’ambiente umano. Una curiosità originata non da un sentimento di condanna, bensì dal desiderio di cogliere i diversi punti di vista messi in campo.
Si sa, infatti, che, soprattutto negli ultimi decenni, con lo sviluppo del terziario, molta manodopera locale gravita su centri occupazionali esterni, per i quali le valli agiscono da serbatoio di manodopera e, in molti casi, anche da semplici dormitori. Si sa anche che non basta vivere in montagna per essere considerati montanari, poiché non sono più solo i luoghi o le classi sociali a fare oggi le appartenenze, bensì i valori, gli argomenti, gli interessi, le relazioni culturali ed economiche, le lobbies. Si sa, infine, che la nostra classe politica è molto sensibile alle manifestazioni del consenso/dissenso popolare, dal quale dipende la sua stessa esistenza, ma credo che abbia anche la capacità di valutare la lungimiranza di un progetto e la forza di dare voce alle decine di migliaia di valligiani che quassù continuano a vivere in silenzio e a lavorare in umiltà, lontano dai riflettori delle petizioni e dei media, i quali hanno bisogno di queste infrastrutture come del pane quotidiano…
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