Sono da poco passate le nove di sera e la giornata volge al termine non senza qualche rimpianto che – fortuna vuole – sembra attenuarsi di fronte al cielo di colore rosa pallido aleggiante e in movimento tutt’attorno al Resegone. “Rosso di sera, bel tempo si spera”, recita un proverbio popolare ancora in voga e la speranza prende il sopravvento sull’umore non proprio positivo. La previsione di una giornata soleggiata all’indomani rende meno grave e accettabile l’inconveniente della rottura della rotoimballatrice: nei löch dei Calf e di Prabicù, infatti, sono rimaste distese lunghe còle di fieno già essiccato e pronto per essere imballato e trasportato sui rispettivi fienili, pari all’equivalente di circa trenta rotoballe. Grazie a Dio, la clemenza del tempo ci ha concesso i tempi supplementari e ha solo rinviato di un giorno la preziosa e attesa fase del raccolto, anche se permane lo spauracchio di un temporale improvviso, che in montagna è sempre possibile. Il pensiero, intanto, nel suo costante esercizio, vaga per cogliere meglio il fenomeno della capillare antropizzazione delle vallate orobiche: solo alcuni giorni fa mi sono confrontato con l’amico Paolo, noto esperto e conoscitore delle dinamiche insediative delle popolazioni locali, proprio sulla relazione tra le contrade e tra queste e i löch sparsi, nonché sulla capacità delle famiglie rurali di organizzare un sistema produttivo efficace finalizzato al sostentamento dei gruppi parentali stabili. Non ci sono studi specifici su questo argomento e, di conseguenza, le considerazioni che seguono sono il frutto di ricerche sul campo e di valutazioni personali fondate sull’osservazione diretta e partecipata della realtà vissuta in prima persona. Nei prossimi mesi il Centro Studi Valle Imagna darà alla luce due pubblicazioni fondamentali di storia sociale ed economica delle famiglie e delle contrade della valle nel periodo tardo-medioevale, curate rispettivamente la prima da Paolo Manzoni, mentre la seconda da Giovanni Pederbelli: i due studiosi analizzano il ruolo delle contrade nella fondazione degli insediamenti stabili sulle Orobie. Una terza pubblicazione, curata da mons. Ermenegildo Camozzi, mette invece in luce speranze e difficoltà nel cammino di mantenimento delle autonomie locali nei secoli successivi, soprattutto in campo religioso.
Il
modello organizzativo della contrada, ossia dell’insediamento umano misto di
edifici per la residenza, le attività e le produzioni (stalle fienili,
essiccatoi, laboratori artigianali,…) di una o più famigli rurali, dall’aspetto
fisico assai coeso e in molti casi anche fortificato, ha reso possibile la
colonizzazione di ampi territori montani. Esistono nuclei più sviluppati di
altri, in relazione alle fortune di alcune famiglie prevalenti, che molte volte
hanno persino dato il nome agli insediamenti, ma anche in forza di
continui scambi matrimoniali con altri
gruppi parentali e della capacità degli abitanti di dotarsi di servizi di
supporto alla residenza, per raggiungere condizioni sufficienti di sicurezza
sociale. Mentre il primitivo organismo insediativo svolgeva funzioni di
supporto all’attività agricola primaria, connessa al reperimento di aree
coltive (ottenute dal graduale e paziente processo di disboscamento) e al
modesto allevamento di bestiame, col passare del tempo si sono sviluppati una
molteplicità di servizi e di attività artigianali, cosicchè all’originale e
semplice modulo di stalla-casa-fienile sono stati “aggrappati”, per addizione,
una serie di altri fabbricati, spesso intercomunicanti, sino a definire quegli
agglomerati complessi e assai articolati (non solo case e stalle, costruite a
ridosso le une alle altre, ma anche laboratori artigianali, ambiti per le
relazioni sociali e religiose,…), stretti tra loro con forza. Li osserviamo
spesso come sospesi sui versanti della montagna, oppure adagiati sui pochi
pianori disponibili e in prossimità di corsi d’acqua o di sorgenti. Case e
stalle, chiesette e campaniletti, fienili ed essiccatoi,… intrecciati gli uni
agli altri, sorretti dalla medesima condizione umana e tenuti insieme dalla
robustezza delle pietre, forti di una solida e paziente alleanza stretta dalle
famiglie residenti con l’ambiente circostante. Centri di vita sociale, dotati
di proprie regole e consuetudini vicinali, le antiche contrade di pietra, gran
parte delle quali attualmente ancora abbandonate all’oblio, un tempo
pullulavano di vita e, tanto dentro le case, quanto nell’ambito definito delle
corti rurali, uomini e donne, bambini e anziani erano sempre affaccendati,
mentre il paesaggio sonoro faceva da sfondo e alternava lo schiamazzo dei
bambini al canto serale dei grilli, il muggito delle vacche nella stalla
l’inverno che richiamavano il diritto del pasto serale al canto mattutino dei
galli nei pollai, il suono dei campanacci dei bovini al pascolo l’estate ai
richiami della Regiùra ai vari
commensali per la polenta ancora fumante traacàda
fò sulla bàsgia.
L’ampliamento delle contrade ha innescato un processo di affermazione delle autonomie locali, conquistate sia sul piano civile che su quello religioso, mediante la costituzione di Parrocchie e Comuni, che dal tredicesimo al sedicesimo secolo ha determinato l’attuale geografia politica della valle. Le famiglie di quelle contrade che si sono insediate sul medesimo versante hanno stretto precise alleanze per meglio tutelare i propri diritti e rivendicare la costruzione di un quadro di relazioni permanenti, destinate a produrre nei secoli nuove dimensioni di comunità, certamente più ampie, dalle contrade al paese. I villaggi non sono nati per espansione di un centro o di una sola contrada, bensì quale addizione di diversi insediamenti rurali, i quali, pur mantenendo le rispettive identità e relazioni di territorio, hanno saputo riconoscersi in un modello organizzativo superiore e comune, nel quale definire i diversi modelli di autorità. Un percorso non facile, sviluppato su un terreno, quello della rivendicazione delle autonomie, pieno di insidie e di pericoli, sia per la difficoltà del potere centrale di riconoscere la graduale affermazione politica della periferia rurale, ma anche alla luce dei rapporti non sempre scontati tra i poteri locali e delle difficoltà nel reperimento delle risorse necessarie per sostenere una adeguata organizzazione sociale e religiosa. Simbolo principale della conquistata autonomia sono stati chiesa e campanile e, al piccolo oratorio di famiglia nella contrada, si è affiancata la nuova chiesa parrocchiale, molto più grande, destinata ad accogliere gli abitanti di tutte le contrade, eretta in posizione baricentrica rispetto ai diversi insediamenti. Chiese mercenarie. Anche il campanile, evocativo della torre civica, con l’orologio pubblico e il suo castello di campane, avrebbe scandito il tempo della comunità, distinguendo i momenti della festa da quelli del lavoro, comunicando l’inizio e la fine della giornata, chiamando a raccolta gli abitanti nel momento del pericolo, diffondendo i segni del lutto. Strumenti fondamentali nel processo di formazione e di coesione delle comunità locali, chiesa e casa municipale (con annesse quasi sempre anche le scuole) agivano da elementi propulsori di un sistema satellitare costituito da diversi nuclei insediativi (le contrade) sparsi e ben distinti, ciascuno dei quali caratterizzato da consuetudini professionali e socio-economiche gravitanti attorno ai nuovi poteri locali voluti dai capi-famiglia.
Il
passaggio dalla semplice contrada, costituita nelle sue dimensioni iniziali da
casa e stalla con fienile e abitata da una sola famiglia, ad un insediamento
più complesso, sempre assai coeso, ma organizzato in diverse corti e popolato
da più gruppi parentali, ha richiesto la definizione di un’organizzazione
territoriale più estesa e articolata, in grado di garantire il sostentamento di
diverse decine di persone. Nel corso dei secoli abbiamo assistito a un processo
di espansione delle contrade, le quali, attraverso un efficace modello di
antropizzazione sempre più capillare del contesto, hanno saputo attrarre a sé i
territori circostanti, entro un raggio più o meno esteso, anche in relazione
alla conformazione geografica dei versanti, esercitando così la loro sfera di
influenza su aree di pertinenza dove poter esercitare l’agricoltura, praticare
l’allevamento, mettere in atto le diverse attività forestali. Attorno ad ogni
contrada possiamo rappresentare graficamente una serie di cerchi concentrici,
ciascuno dei quali dotato di specifiche funzioni, in relazione alle rispettive
distanze dal centro. Il primo cerchio, attorno al nucleo insediativo
principale, con raggio limitato a poche decine di metri, era di norma
costituito da orti, corti e primi campetti a vanga, con funzioni connesse ai
principali servizi alla residenza. Il secondo cerchio, con raggio estendibile
ad alcune centinaia di metri, era invece occupato dai campi veri e propri,
destinati alle produzioni, coltivati sempre a vanga e di norma terrazzati con
muretti o cigli erbosi, ma anche dai prati stabili (quasi sempre arborati a
noci) e dai castagneti. Si trattava di aree sempre di prossimità alla contrada
e i prodotti ottenuti dalle diverse colture e attività si depositavano nelle
stalle, sui fienili e in altre costruzioni rurali situate all’interno
dell’insediamento umano o nelle sue immediate vicinanze. Un terzo cerchio
concentrico, oltre ai campi e ai prati, definiva le aree a pascolo, di norma
non particolarmente estese e non concimate, se non dalle vaccherelle durante il
periodo dell’alpeggio. Infine, il quarto cerchio, il più distante dalla
contrada, si estendeva di norma sino a raggiungere le punte più periferiche
della rispettiva area di influenza ed era occupato da boschi di latifoglie,
caratteristiche delle foreste temperate delle valli prealpine. Il bosco –
contrariamente a quanto si è portati a pensare al giorno d’oggi – non era lo
spazio della natura selvaggia e incontrastata, bensì un ambito coltivato e
prezioso per l’economia delle famiglie, dal cui sfruttamento si potevano
ottenere carbone, legna da ardere o da impiegare nelle costruzioni e per la
fabbricazione di oggetti e strumenti, senza trascurare la sua funzione di
scrigno di varie risorse alimentari rinnovabili (selvaggina, piccoli frutti,
funghi,…) e di pronto reperimento. Di norma il bosco veniva tagliato ogni venti
o al massimo trent’anni, per rinnovare il suo ripopolamento, anzi era consuetudine
che il Tata, quando nasceva una
bambina, provvedesse al taglio di una boschina: in questo modo il medesimo
bosco sarebbe stato pronto per il taglio successivo proprio quando quella
figlia avrebbe raggiunto l’età da marito e, dalla vendita delle legne, avrebbe
potuto così recuperare le risorse occorrenti per costituire una giusta dote.
Nulla era abbandonato al caso e ogni attività rurale rispondeva a esigenze e
programmi particolari, anche a lungo termine.
Bellissimo articolo, complimenti. Spesso ci si dimentica che il mosaico che rappresenta il paesaggio della valle non è semplicemente natura, bensì dialogo e lotta tra uomo e natura.
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