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AMBIENTI UMANI E PENSIERI D’ALTRI TEMPI… IN ATTESA DEL NATALE

 


Le principali feste tradizionali delle comunità contadine sparse sui versanti montani delle Orobie si sono sempre confrontate con il calendario religioso, seppure distribuite nel perenne susseguirsi dei lavori stagionali e delle necessità impellenti imposte dall’incessante peregrinare dei contadini tra prati e campi, pascoli e boschi, botteghe artigianali e cantieri edili,… Ol festù di San Luigi, infatti, anziché il 21 giugno – tempo di fienagione e di emigrazione – veniva di norma celebrato l’inverno, tra gennaio e febbraio, quando i giovani vivevano tutti in famiglia e non erano ancora partiti per le consuete campagne lavorative all’estero. Il tempo della festa aveva stretto un’antica alleanza col tempo del lavoro, anzi ne rappresentava una sorta di naturale conclusione. Ma si compenetrava anche con i contesti vissuti degli insediamenti rurali e dell'ambiente umano modellato e costruito dentro una natura difficile, non completamente ostile.  L’uomo, fatto a  immagine e somiglianza di Dio, ha completato l’opera della Creazione, implementando la propria dimensione evolutiva. Pure Dio il settimo giorno si riposò: un giorno particolare, benedetto e santificato, riservato al compimento e alla contemplazione del Creato. Era fatto divieto di lavorare, se non per ragioni urgenti e indifferibili, ma occorreva ottenere l’autorizzazione del prevosto, come durante la fienagione, che di norma veniva concessa, dietro però la raccomandazione – mi raccontava il caro amico Costantino Locatelli – de portàga fò ü fasì de fé dach a la césa. La festa non è un’evasione, ma un completamento, il compimento e l’osservazione di un’opera degna di meraviglia.

I Santi contadini affiancano e illuminano ulteriormente le naturali espressioni di pietà popolare nei confronti dol Signùr e de la Madóna. Li si può incontrare facilmente, ancora oggi, nelle vecchie statue conservate nelle chiese dei villaggi, oppure nelle effigi impresse su affreschi e tele distribuiti nei vari manufatti sacri sparsi sul territorio, innanzitutto nelle nicchie poste sopra i portoni d'ingresso delle antiche case contadine, oppure collocate dentro le belle tribülìne di pietra che si incontrano ai margini dei principali percorsi selciati. Le feste dei contadini nascono e si concretizzano innanzitutto quali espressioni di convivialità, con al centro la famiglia, la contrada, il paese, ed esprimono immancabilmente sentimenti collettivi. La festa si trasforma in un momento di riconciliazione con se stessi, la natura e la società. Non c’è festa senza comunità. Anzi la festa diventava una forma di elevazione morale e spirituale della comunità. Un tempo rifletteva innanzitutto il bisogno di stare insieme, per condividere le sorti di un'esistenza a volte grama; non si comprendeva l'esultanza del singolo al di fuori delle manifestazioni di giubilo della famiglia. Durante il lavoro si faticava tutti quanti, nel tempo della festa si gioiva e riposava.  Fino in fondo. Non esistevano soluzioni individuali. Compleanni e onomastici hanno sempre avuto poca rilevanza e, soprattutto nel passato, non hanno mai giustificato trattamenti particolari a favore dei singoli individui, al di fuori di qualche teràda de orègie a bambini e ragazzi da parte di familiari e parenti, come esplicito invito a fà mia l'àsen nella vita. Anche per Santa Lösséa, forse l’unica festa rimasta “misteriosa” per i bambini, in prossimità del Natale, alla consueta manciata di nessöle, pochi basì e ü portagàl, posti accanto ad ogni scarpetta, facevano la loro comparsa bretì, scalfaròcc e guàncc de lana, prodotti dall’incessante lavorìo delle donne della casa. Regalìe come pensieri augurali e utili per affrontare l’esistenza di tutti i giorni.

Le principali feste comunitarie del villaggio seguivano un particolare rito, all’ombra della chiesa, con noéna o tridio di preparazione, soprattutto serale (per non distrarre uomini e donne dai loro impegni giornalieri), cui facevano seguito, il giorno dell'atteso evento, messa solenne antimeridiana, dottrina pomeridiana con vèsper e processiù, preceduti a volte da questue e seguite da pubblici incanti, accompagnate spesso anche dalla banda musicale e dal rimbombo di mortèr e rochète. Frastuono è sempre stato sinonimo di festa.

C’era una festa, però, diversa da tutte le altre, dove al frastuono ha sempre prevalso il raccoglimento, priva di esplicite e altisonanti manifestazioni di giubilo collettivo, nel silenzio ovattato di norma da una folta coltre di neve. E’ il Natale, festa per eccellenza della famiglia e tempio spirituale della memoria. Gli emigranti – erano tanti, allora – avevano ormai fatto ritorno nelle contrade avite, i lavori nella campagna subivano un generale rallentamento, i membri dei gruppi parentali trascorrevano gran parte del loro tempo nelle stalle e loro adiacenze, dedicandosi ai diversi lavoretti di manutenzione delle infrastrutture agrarie e alla ricostruzione di utensili e strumenti agricoli e domestici. Gli anziani conservavano e ravvivavano le tracce durature di esperienze trascorse, le memorie dei cari defunti della casa, le informazioni e le conoscenze da consegnare ai più giovani per affrontare la vita quotidiana: vivevano e trasmettevano la responsabilità collettiva per il rafforzamento del casato; essi sapevano guardare lontano, pur mantenendo i piedi per terra. Famiglie cresciute a immagine e somiglianza della Famiglia di Nazareth: fede, coraggio, tanta umiltà, ambienti e contesti rurali poi non così diversi da quello rappresentato nell’iconografia popolare della nascita di Gesù. Non c’era bisogno di ricorrere a ricostruzioni della Natività, come accade al giorno d’oggi, poiché le famiglie rurali costituivano già una naturale rappresentazione dal vero e dal vivo del Natale. Erano la vera rappresentazione del Natale: la celebrazione della nascita di Gesù costituiva una sorta di linfa generatrice di significati e valori della famiglia contadina, ma anche la rappresentazione concreta di una modalità di vita sociale. La madòna della casa conosceva bene la capacità della vacca di trasmettere calore per irradiazione e riscaldare così la stalla dove la sera la famiglia si riuniva per la recita del rosario. Ma sapeva anche cogliere la portata della povertà materiale di Maria, costretta ad utilizzare la mangiatoia come culla: succedeva di frequente nelle stalle contadine e, per quanto mi riguarda, la nonna, nei primi mesi di vita, ancora avvolto in strette fasce, mi collocava di frequente sopra un ripiano della credenza, quindi socchiudeva la robusta anta per tenermi al sicuro. Durante la fienagione, invece, quel fagottino umano veniva semplicemente adagiato sul tappeto d’erba nel prato, sorvegliato dall’occhio vigile dei vari lavoranti con rastèl, ràscc e sdìrna. Il tata, dal canto suo, aveva sperimentato la bontà dell’asinello nel alleviare le sue molteplici fatiche per il trasporto di pesi e merci. I piccoli allevatori della montagna non erano poi così dissimili dai pastorelli condotti alla stalla della Natività dalla cometa. La letteratura popolare e la dottrina cristiana si calavano pienamente nella vita delle famiglie rurali, presso le quali la memoria della Natività si rinnovava ogni anno, rinvigorendo di nuovi significati antiche memorie e tradizioni secolari. Famiglie rurali come presepi viventi.

Nella camera nunziale del tata non mancavano due quadri, quello della Sacra Famiglia (a volte sostituita dall’effigie del Sacro Cuore di Gesù), di norma appeso al muro al capo del letto, e quello della famiglia reale della progenie, appeso alla parete laterale. In quella stanza si consumavano gli eventi più importanti della famiglia, dalla nascita alla morte dei suoi componenti, vero tempio del gruppo parentale, dove la base del comò si trasformava spesso in altarino. Diverse volte ho visto il nonno affacciarsi alla finestra di quella camera in preghiera, con atteggiamento benedicente, sfidando l’imperversare del cattivo tempo, aspergendo con l’acqua santa l’aere e bruciando un rametto d’ulivo, anch’esso benedetto la Domenica delle Palme, per invocare il ritorno del bel tempo! Durante quel pur breve "sacramentale", le attività dentro la casa si fermavano.Di sotto, invece, al piano terra, lo scoppiettio del fuoco nel camino, più tardi nella stufa della cucina economica, costituiva una sorta di colonna sonora della vita contadina: scandiva, con le ore della giornata, anche il ritmo delle stagioni, il passare degli anni, l’età delle persone di quella casa. Una volta rimpatriati, dopo una stagione lavorativa a tagliare abeti o a produrre carbone di legna nelle foreste alpine, lungo i confini nazionali, gli emigranti raccontavano esperienze e trasferivano ai giovani nuove emozioni e sogni lontani. Nelle stalle nascevano e si tramandavano leggende e narrazioni, reali e fantastiche, ma si confrontavano pure bilanci stagionali e programmi futuri. Il fuoco - del resto - ha da sempre creato un'atmosfera magica, fatta di suoni, forme, odori e colori sempre diversi. Il tata, nel periodo invernale, quando non era nella stalla, attirava l’attenzione dei bambini intorno al focolare domestico raccontando loro storie fantastiche, accompagnate dalla coreografia di una fiamma leggera, allegra e variopinta prodotta dal tronchetto di àlbera (betulla), oppure provocando la fuoriuscita o meno di fumo bruciando rispettivamente legna de castègna o de fó (di castagno o di faggio). Il fuoco armonizzava e completava la narrazione stessa. In particolare, nelle case contadine delle nostre valli il fuoco raccolto nel camino ha da sempre costituito un invito alla riflessione, un elemento di convergenza dell’identità familiare, solidarizzando con l'uomo nella buona e nella cattiva sorte. Rinfrancava e rincuorava nella notte invernale i veglianti sulla salma del parente defunto, gioiva e pativa con i commensali nella preparazione del cibo (genuino ma spesso scarso), riuniva nella preghiera tutta la famiglia per la recita del rosario serale, la notte di Natale rinvigoriva la memoria della nascita del Bambin Gesù e si trasformava nel cuore pulsante della famiglia. Durante la narrazione, ol tata, rovistando nel braciere con la moèta per ravvivare la fiamma sul camino, accomodando i tizzi per farli bruciare meglio, provocava volutamente il sollevamento di faville, che parevano tante stelle in quel firmamento domestico.

La notte di Natale era diversa dalle altre e il tata la sera caricava sul camino ol sòch (il ceppo) più grosso che aveva messo da parte nella legnaia: bruciando lentamente, avrebbe riscaldato, oltre all'immagine e ai "pannolini" di Gesù Bambino, anche il cuore di tutti i componenti del gruppo parentale. Infine, anche i resti di quella combustione, come la cenere e i tizzoni spenti, erano preziosi. Le ceneri, con un pizzico di sale, venivano lasciate sul focolare, quale benedizione per la casa; gli avanzi carbonizzati, invece, parte andavano riposti in luogo sicuro ed erano tenuti a portata di mano, come talismani. Fare con quei carboni il segno di croce sulle porte era un metodo ritenuto portentoso per tenere lontani gli spiriti maligni; accendere con quella carbonella residua il fuoco nel locale attrezzato per l’allevamento dei bachi da seta, avrebbe stimolato i piccoli caalìr a mangiare la foglia di gelso, lì accuratamente predisposta. Dalla cappa penzolava l’immancabile sósta (catena con gancio), sulla quale stava appeso ol stegnàt co la menèstra (il paiolo con la minestra), mentre, a fianco del legnèr, ol bernàs e la moèta, ol tripì e la graticola erano sempre pronti all’uso. Pochi i solfanèi a disposizione e ciascuno di essi doveva servire almeno due volte: la prima sfregando la cima solforata, la seconda adoperando l’assicella residua per suscitare il fuoco dalla bernìs (cinigia).

Dentro la vetrinetta della vecchia credenza dai mille utilizzi, appoggiato ai piatti decorati messi in bella mostra, di lontana provenienza e forse mai utilizzati, ol madunì dol Nedàl, ricevuto dal prevosto durante l’ultima questua per i Morti, era un invito ad entrare nella dimensione dell’Avvento. L’attesa del Natale non sempre si avvaleva di evidenti richiami esterni; del resto, la vita stessa delle famiglie contadine può essere considerata un lungo tempo trascorso ad aspettare il concretizzarsi di qualcosa di cui avevano assolutamente bisogno per sopravvivere: il raccolto della fienagione, il ritorno degli emigranti, il parto della vacca nella stalla, il sopraggiungere di un nuovo figlio,… La vita stessa era un continuo incessante Avvento. Le speranze di progresso erano sempre minacciate dalla precarietà di un’esistenza spesso contrassegnata da fatti incerti e non governabili. Atteggiamenti di rispetto e prudenza nei confronti sia delle forze del mondo naturale che di quelle del soprannaturale ponevano i singoli individui in posizione di accettazione remissiva dei limiti imposti dalla propria condizione umana. Sul ripiano della medesima credenza (in molti casi era l’unico mobiletto nel locàl dol camì, oltre al tavolo e alle panche), compariva improvvisamente un piccolo presepe costituito da poche statuine, in molti casi solamente da quella del Bambin Gesù, che la Regiùra conservava gelosamente, avvolte en d’ü fagutì, riposte nella sua cassapanca nuziale. Ai bambini comandava de ‘ndà a tö empó de ranì fò en de la alèta, sopra il quale, come un tappeto verde e soffice riporre con devozione quelle sacre effigi. Nella casa della grande famiglia del nonno, appoggiato söl pià de la fenèstra, spiccava il piccolo alberello natalizio, addobbato con pochi fili colorati d’oro e d’argento, sul quale la nonna appendeva alcuni basì, fissati ai vari ramoscelli col fil de rèf o coi gugì. Tutto si svolgeva in modo assai naturale e spontaneo. Dalla natura si recuperava il necessario per configurare una particolare dimensione domestica del Natale e c’era anche chi scolpiva la statuetta del Bambin Gesù da un pezzo di legno. Successivamente, nei primi anni Sessanta del secolo scorso, a seguito della frammentazione della famiglia estesa del nonno, nel nostro gruppo nucleare il papà, da poco rimpatriato dalla Svizzera, a conclusione della sua campagna lavorativa stagionale nelle foreste della Confederazione d’Oltralpe, tagliava nel bosco una pianticella di spenaràcc o di döèrnes che, conficcata dentro un tronchetto, avrebbe costituito il nostro albero di Natale, sul quale la mamma incominciava ad appendere anche qualche lucina, alcune palline colorate e soprattutto dolci di cioccolato rivestiti con carta colorata e lucente, vera attrazione per noi bambini. Guardare ma non toccare! Altrimenti la bachèta de nesöla, sempre pronta, appoggiata dietro alla porta, incominciava a “svolazzare” di qua e di là, guidata dalla mano ferma e decisa della mamma. La previdente massaia il giorno di Natale, dopo pranzo, avrebbe staccato un dolcetto da offrire a ciascuno dei suoi sei figli. C’era l’idea e la necessità del risparmio e la müsìna era di casa a quei tempi. Prima di sedersi a tavola, dove attendeva ol pulì de Nedàl (il tacchino allevato appositamente per il pranzo di Natale) e la bàsgia (la tafferia) con la polenta ancora fumante, sulla quale aveva già tracciato con la paletta il segno della croce, la Regiùra ci radunava tutti attorno alla stufa: mentre bruciava un rametto di ginepro, recitava l'Angelus (Angelus Domini nuntiavit Mariae ... ). Ol föm de döèrnes era benedetto il giorno di Natale e andava inspirato profondamente da tutti noi, in atteggiamento di preghiera e di fede. Ci avrebbe preservato nella salute e nello spirito.

Ambienti umani e pensieri d’altri tempi.

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