UN’EPOPEA WESTERN SULLA COSTA SUD-ORIENTALE DELL’AMERICA LATINA - IL NUOVO LIBRO DEL CENTRO STUDI VALLE IMAGNA -
Non è semplice navigare nel mare degli anglicismi istituzionali che, specialmente in questo periodo, caratterizzato dall’emergenza Covid 19, sono entrati prepotentemente nelle nostre case e mettono in imbarazzo quanti, soprattutto i meno giovani, non conoscono l’inglese e subiscono una ulteriore emarginazione sociale. Cashbach in arrivo, tamponi in modalità Drive trught, Covid manager per i mercati alimentari comunali, App di Contact Tracing; e poi, ancora, Lockdown all’italiana, Smart working e Smart learning,… A volte viene da chiedersi in che Paese viviamo, anzi si ha l’impressione che l’uso di un linguaggio per molti incomprensibile costituisca un modo per far sentire stranieri in patria migliaia di cittadini. La pandemia ha scatenato la campagna d’autunno, che i bollettini giornalieri del Governo non mancano di registrare in termini di tamponi e contagi, ricoveri e decessi. Il nuovo decreto ministeriale (3 novembre 2020) chiude di nuovo molte attività economiche e confina la popolazione della nostra regione all’interno delle proprie abitazioni. All’isolamento del linguaggio fa seguito quello fisico. Vietati anche incontri, convegni e attività culturali in pubblico, comprese presentazioni di ricerche e pubblicazioni, in quanto suscettibili di provocare pericolosi assembramenti di persone, ma le folle e gli eventi culturali sono elementi ormai diametralmente opposti. Anche noi ci dobbiamo adeguare al nuovo clima di chiusura, per la mancanza di spazi sociali e il venir meno di positive occasioni di incontro. Così pure il nuovo libro del Centro Studi Valle Imagna sull’emigrazione bergamasca in Brasile, nello Stato federato di Santa Catarina, vedrà tra pochi giorni la luce in sordina, lontano dai riflettori, quasi di nascosto, senza il clamore di un’attesa annunciata da liberi e vivaci banditori. Nasce in isolamento, quasi silenziato dalla cappa sociale delle preoccupazioni sanitarie, ma anche sociali ed economiche, che caratterizzano in queste ultime settimane la vita delle persone, pregiudicando addirittura l’esistenza delle fasce sociali più fragili. Abbiamo deciso di non sospendere ulteriormente la pubblicazione, per lanciare un segnale di speranza: la vita continua, si rinnova sempre, in ogni situazione, e anche nel passato l’umanità, nel suo complesso, ha saputo affrontare e superare situazioni contingenti non facili, ritrovando sempre, alla fine, la sua dimensione.
Ogni volume ha la sua
storia, un po’ come le persone, e il periodo di gestazione varia in relazione
allo sviluppo della ricerca, alla formazione e alla consistenza dell’opera, oppure alla definizione dell’oggetto fisico che la rappresenti. Alcuni libri nascono
in fretta e si rivelano quasi subito, mentre altri si fanno attendere, hanno un
processo di elaborazione più lungo, a volte concentrato nella fase di messa a
punto di un’idea, oppure nel corso di costruzione del “vestito editoriale”;
infine, non per ultimo, il percorso di diffusione e valorizzazione del prodotto
finale si ingrippa nel reperimento delle necessarie risorse finanziarie. A catàr la cucagna – questo è il titolo
del nuovo libro – si è fatto attendere da quando, negli ultimi mesi del 2013, è
stata effettuata la ricerca e chi scrive ha intrapreso un viaggio, non solo
fisico, nella cultura italiana dello Stato federato di Santa Catarina, in
Brasile, visitando i territori e avvicinando diversi connazionali, figli della
civiltà italo-brasiliana sedimentata nella regione, grazie all’incessante
lavoro di ormai cinque generazioni di immigrati italiani: immersi profondamente
nella vita del giorno d’oggi, essi ci hanno consegnato la loro storia, quella
delle rispettive famiglie e delle comunità ancora profondamente “nazionali”,
all’interno delle quali la lingua e la cultura bergamasca mantengono vive
antiche ed efficaci espressioni di italianità. La pubblicazione si configura
quale restituzione ufficiale ai diversi “informatori” della loro storia sociale
e familiare, a conclusione di una straordinaria epopea migratoria che li ha
visti agire da protagonisti nel Nuovo Mondo, ma vuole essere anche il pubblico
riconoscimento di una memoria collettiva che oggi stenta a essere riconosciuta
come tale.
L’emigrazione bergamasca in Brasile negli ultimi decenni del XIX secolo è ancora poco conosciuta. Non possiamo dimenticare che per molti conterranei è stata un’esperienza totalizzante e definitiva: migliaia di migranti, per lo più semplici contadini, sapevano che non avrebbero più fatto ritorno. C’era il grande mare di mezzo e la traversata oceanica, nelle narrazioni popolari, è ricordata come un evento difficile, a volte anche drammatico e spaventoso. Francesco, il bisnonno di Luisa, Edison e Divo Maccarini, è giunto in Brasile il primo gennaio 1892 assieme ai suoi due fratelli, ciascuno con la propria famiglia: quel lungo viaggio sul navìo è costato loro l’estremo sacrificio di due bambine ancora piccine. Il corpo esanime di una di esse, per la paura che fosse gettato a mare, è stato rinchiuso in una valigia, per dare una degna sepoltura a quel corpicino, una volta sbarcati. Immagini d’altri tempi, quando su quelle “carrette” del mare si consumava il dramma di migliaia di Italiani.
Immigrazione
e colonizzazione sono due fenomeni strettamente collegati nella storia sociale
recente dello Stato di Santa Catarina, ossia sono avanzati di pari passo: il
Brasile voleva sfruttare ampie porzioni di territorio ancora inesplorato e,
soprattutto nello Stato confinante di San Paolo, doveva sostituire la
manodopera degli schiavi, che nel 1888 avevano ottenuto la libertà (per
l’emigrazione bergamasca nello Stato di San Paolo si richiama la precedente
pubblicazione Non per divertimenti, ma per cercare pane e lavoro. Memorie di emigrazione
di Bortolo Carminate, 1892-1902. Edizioni Centro Studi Valle Imagna, 2017). Le
società di colonizzazione privilegiavano l’ingresso in Brasile di famiglie
intere, alle quali assegnare diversi ettari di foresta da disboscare e
coltivare. Don Valdemar Carminati, rievocando le principali vicende della sua
famiglia, offre alcuni veloci spunti che aiutano a ricostruire i contorni di
una stagione sì difficile e pericolosa, ma anche estremamente entusiasmante,
quando quei primi coloni si apprestavano a costruire un nuovo modello di
società in luoghi ancora inesplorati e in attesa di essere inglobati nella
storia umana, facendo interagire un insieme di elementi sociali, economici,
religiosi e caratteriali propri del sistema di vita e della scala di valori
esportati dal Vecchio Continente e, in particolare, dalle aree alpine. Migliaia
di immigrati italiani, reclutati soprattutto nelle regioni del Nord-Italia,
nella seconda metà dell’Ottocento sono stati attratti dal “Sogno americano” del
Brasile: essi sono stati chiamati non solo a coltivare la terra, ma soprattutto
a fondare una nuova società.
Famiglia,
terra e proprietà hanno costituito i fattori principali di incardinamento di
migliaia di immigrati italiani, inghiottiti per sempre nel Nuovo Mondo. Di
molti di essi, attratti dal mito della terra, per la conquista di nuovi spazi
vitali, si sono perse le tracce. Non si sono inseriti in società preesistenti,
ma hanno formato nuove comunità, cui hanno dato il nome delle cittadine italiane
di provenienza (Caravaggio, Nuova Venezia, Nuova Trento, Treviso,…). Gillard
Gava Cesconeto è un italo-brasiliano di quinta generazione (è stato il suo trisavolo
ad emigrare per primo nella seconda metà dell’Ottocento): ha studiato ed è
capace di sintesi storica, ma soprattutto egli partecipa attivamente alla vita
sociale e politica di Nuova Venezia. Le sue origini affondano nella cultura
bergamasca e trevisana; si considera figlio di una grande nostalgia, nonostante
riconosca la fortuna di poter oggi superare con più facilità il grande mare che
separa l’America dall’Europa.
Gli immigrati italiani hanno svolto tanto lavoro e sostenuto sacrifici inimmaginabili, per costruire la “loro” Italia in un Paese tanto lontano. Per fare memoria di quella straordinaria epopea, abbiamo acquisito dodici testimonianze di altrettante famiglie bergamasche emigrate in Brasile verso la fine dell’Ottocento, raccogliendo sul campo documenti, esperienze dirette, fotografie che mostrano uomini barbuti a cavallo, cappello a larghe tese sul capo, fucile in mano e Colt alla cintura, dopo una battuta di caccia agli animali feroci e… agli indigeni nascosti nella foresta; donne con lunghe gonne, capelli intrecciati e avvolti sul capo intente a coltivare la terra; missionari circondati da bambini indigeni sottratti alle loro famiglie. Antonio Pierini ha molto da raccontare e la sua parlata è una fitta commistione tra portoghese, italiano, bergamasco, cremonese e veronese, aree di riferimento principali dei suoi ascendenti: essa rende bene la dimensione dell’incontro interculturale, con radici linguistiche che sopravvivono, si evolvono e contaminano a vicenda. Un curioso intreccio di lemmi e sonorità. Ciascuna di esse richiama alla luce un periodo particolare dell’evoluzione del gruppo parentale nel nuovo Paese d’adozione, soprattutto in riferimento agli scambi matrimoniali dei vari membri. Una lingua specchio di una vita non facile, di quando, ad esempio, per accendere il fuoco in colonia bisognava portare le brónse en mà, o si andava nella foresta a matàr gli animali selvatici; oppure, ancora, quando il bisnonno, analfabeta, scriveva la lettera “O” con la canna della s-ciòpa.
Altre
testimonianze descrivono scelte di migrazione, scene di lavoro nei campi, di
matrimoni, di vita nella colonia; storie di sopravvivenza nella foresta, nuovi
progetti di vita, affermazione della proprietà e difesa dei confini, acquisto
di altre terre, espansione delle famiglie, scenari di progresso sociale ed
economico,… Nevio Oggioni ricorda che nella colonia assegnata al bisnonno non c’erano popolazioni indigene. Quei primi coloni avevano con sé
poche cose: martèl, rasgù, sgür, e pochi altri oggetti da lavoro. Scarsa
la ferramenta e quasi nessun armamento. La sua famiglia non si è mai scontrata
con i “Bulgari”: così erano chiamati i nativi americani che vivevano nei
villaggi sparsi della foresta, organizzati in tribù, prima della colonizzazione;
essi non conoscevano il concetto di proprietà, poiché la terra era considerata
un bene collettivo. In genere i coloni non attaccavano, ma si limitavano a
difendere la proprietà che era stata loro assegnata e la loro esistenza. Una
famiglia di immigrati veneti – continua a raccontane Nevio - quella dei Corài,
più di una volta si è scontrata con gli indigeni selvaggi. Alcuni membri di
quella famiglia si erano addirittura specializzati nel dare la caccia ai
Bulgari. Andavano per uccidere i selvaggi e tagliavano un orecchio ad ogni
cadavere, quale prova della loro temerarietà. Svolgevano questo servizio anche
per la difesa delle proprietà degli altri coloni, che affidavano a loro la
propria sicurezza, oppure su mandato specifico delle Società di Colonizzazione.
Ci
troviamo di fronte a un’epopea Western sulla costa Sud-orientale dell’America
Latina, dove vita e morte, tradizione e progresso, antichi miti e moderne
organizzazioni sociali, si sono affrontati da vicino, come in un duello.
Ma, come poi scrivere:"Svolgevano questo servizio anche per la difesa della proprietà degli altri coloni..." Ti rendi conto????
RispondiEliminaE' certamente l'aspetto meno "nobile" della colonizzazione. Perchè ti scandalizzi? E' stata la realtà...
EliminaHo sottolineato la frase "Svolgevano questo servizio..." Prima di quella frase, il commentatore, scrittore che sei, descriveva quello che ha sentito dire nelle testimonianze dei discendenti, bene.
RispondiEliminaPoi viene la frase: "Svolgevano questo servizio....". A quel punto non lego più la testimonianza di un discendente ma un commento di Antonio Carminati. Mi urta la parola "servizio", vero l'italiano non è mia lingua madre, ma non sapevo che "servizio" fu un sinonimo di "omicidio".
E' tutto frutto dell'intervista. Una domanda: perchè questa animosità?
EliminaNessuna animosita, schiacciare una zanzare (forse) e un servizio.
EliminaUccidere un essere umano e un omicidio.
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RispondiEliminaE' talmente evidente quanto affermi, che persino Papa Francesco ha chiesto perdono ai popoli indigeni dell’America Latina per i molti crimini commessi dalla Chiesa Cattolica durante la conquista. Nel suo discorso storico alla Conferenza Mondiale dei Movimenti Popolari a Santa Cruz in Bolivia, il Papa ha detto:
RispondiElimina“Voglio dirvelo, e voglio essere molto chiaro: vi chiedo umilmente perdono, non solo per le offese commesse dalla Chiesa, ma anche per i crimini commessi contro i popoli indigeni durante la cosiddetta conquista dell’America”. Tieni presente che a servizio di tale conquista si resero disponibili governi e imprenditori, anche le diverse Società di colonizzazione, pubbliche e private, che si erano impegnate in molti casi a garantire la "sicurezza" del territori ceduti ai coloni.