Gruppo di boscaioli valdimagnini emigranti nelle foreste di Reconveglier (Svizzera) nei primi anni Cinquanta del secolo scorso. In piedi da sinistra: i fratelli Giacomo e Luigi Carminati, Giuseppe Manzinali. Seduti da sinistra: Nino Manzinali, i cugini Piero e Francesco (Cèsco) Carminati, Giuseppe Manzinali.
Per i boscaioli superstiti delle generazioni passate il bosco ha rappresentato un prezioso serbatoio di risorse primarie; vi ricavavano la legna per il camino o la stufa, oppure da vendere. Ol Tata, alla nascita di un figlio, tagliava öna boschina e programmava il taglio successivo dopo circa vent’anni, quando il giovinetto avrebbe raggiunto l’età del matrimonio; otteneva il cibo per nutrirsi, specialmente in tempo di carestia: castagne e piccoli frutti spontanei, funghi, ma soprattutto la carne, tanto attesa e sempre preziosa, procacciata dalla cacciagione con archècc e bachitù, làs e rit; i cacciatori, appostati in roccoli e capanni o nascosti dietro semplici froscadì attendevano pazienti le loro prede; sempre dal bosco traevano le erbe e le piante per curarsi, il legname per costruire case e stalle, come pure per modellare utensili e strumenti per i diversi impieghi domestici e agricoli. Ingegno e creatività smarcavano le persone più intraprendenti, le quali avevano una marcia in più per affrontare e superare le difficoltà della vita. Inoltre, nascoste sotto le folte chiome, molte persone, soprattutto nel passato, hanno trovato rifugio e scampo da guerre e persecuzioni, conquistando spazi di autonomia e libertà.
In autunno, poi, quando la vegetazione si veste di nuovi colori, il fogliame ottenuto dalla pulizia del sottobosco e dal riordino dei pascoli adiacenti, effettuata con scùe de bachète, raccolto nelle gabbie e ammassato sö stalòt de la fòia, veniva utilizzato per rinnovare la lettiera delle vacche nella stalla durante la stagione invernale.
Quello del boscaiolo era un mestiere che si acquisiva sin dalla giovane età, quando i bambini costruivano poiatì, impiantavano innocui palorci per felà la lègna utilizzando cavetti d’acciaio o semplici fil de fèr, catturavano volatili con ingegnosi strumenti costruiti da loro stessi; i più abili i vàa a nì, per allevare uccelli da richiamo. Con l’età crescevano anche abilità e competenze e, dal semplice filo a sbalzo, si passava alla costruzione di teleferiche e altri complessi impianti per l’esbosco del legname; dai primi ridì tesi nella boschina si passava alla costruzione e alla gestione di strutture stabili e preordinate alla cattura degli uccelli, come roccoli e capanni, per i quali i Bergamaschi hanno ottenuto consensi e favorevoli riconoscimenti un po’ dovunque.
La relazione con il bosco non è mai stata solitaria. Le insidie avrebbero avuto il sopravvento e quello di carbonai e boscaioli è sempre stato un lavoro di squadra, organizzato su base familiare, di contrada e paese. Le loro abilità forestali sono cresciute nei boschi vicini alle contrade rurali e si sono perfezionate nel corso di più generazioni di alpigiani anche in contesti assai distanti, lungo tutto l’arco alpino. Questi lavoratori del bosco hanno vissuto camminando in continuazione, misurando la vita con i passi. Nel bosco si andava a piedi, non c’erano strade. La loro coscienza era fatta di cose concrete, utili, necessarie. La vita stessa era una semplice successione di situazioni e di significati sempre in divenire, che s’imponevano con molta naturalezza, da mane a sera. Non praticavano l’alpinismo, ma le loro gambe da montanari sono cresciute come robusti faggi nei boschi della valle; l’escursionismo non costituiva un piacevole diletto, ma una pratica quotidiana per relazionarsi ogni giorno con i vari contesti rurali e attività sempre diverse. Camminare era una questione di sopravvivenza. Si camminava anche due ore la mattina, al buio, per raggiungere la cópa da lavorare e bisognava essere già sul posto alle prime luci dell’alba, come fanno i cacciatori, in attesa delle loro prede. Sì, perché il lavoro era una preda, forse la più importante, che bisognava “catturare” ‘ntàt che la gh’ìa! Il lavoro era un mito e il risparmio una necessità per i tanti lavoratori “amanti” del bosco.
Marzo era il mese della partenza per migliaia di emigranti stagionali. Giungeva inevitabilmente, tutti gli anni, il momento del distacco dagli ambienti familiari, dove gli uomini avevano trascorso l’inverno. Valorosi seguaci di Sant’Uberto e di San Simone, lo Zelota. Carbonai e boscaioli, anche semplici contadini, appesi gli schioppi nei vestére delle rispettive camere nuziali, a gruppi si dirigevano sugli Appennini, oppure in Francia o in Svizzera, per fà campagna, ossia lavorare un’intera “stagione” nelle foreste e presso le fèrme d’Oltralpe. È stata, quella stagionale, soprattutto un’emigrazione maschile, di giovanotti e padri di famiglia, in cerca sia di lavoro, che di affermazione professionale. Il bosco ha rappresentato lo spazio privilegiato dove esprimere abilità e attitudini di prim’ordine e, non meno importante, guadegnà dò palànche.
I tre mesi invernali erano dedicati alla famiglia e alla casa: c’erano da riordinare i terreni, qualche muretto delle sée andava rifatto; inoltre besognàa ‘ndà a fà la fòia e bàt dó ol rüt en di pràcc, andava rifatto un tratto di selciato della caalìra,... Era il periodo nel quale occorreva saldare il conto accumulatosi da diversi mesi söl lebrèt de la spésa, ma nel contempo acquistare un altro pezzo di prato, o incominciare gli scavi, con badìl e sapù, per la costruzione della nuova stalla. Quei novanta giorni circa finivano sempre presto e… ol mis de màrs l’ìa söbet sà, quando le giornate si allungano a vista d’occhio. Il caldo tepore del primo sole primaverile costituiva il richiamo alla nuova partenza. L’ìa ùra de fà sö la alìs. In famiglia si respirava l’imminente partenza del papà e la mamma, quando la caffettiera sulla stufa incominciava a fischiare, ricordava ai presenti: “Sènt ol café che l’tròta! L’è ol tréno che l’và en Svìssera!”. Il suono onomatopeico richiamava anche la similitudine con le tradotte dei soldati. Boscaioli emigranti, come tanti soldati, erano in partenza per il fronte. Quelle valigie, colme di indumenti da lavoro, ma anche di sighür e corlàss, seghöròcc e scursì acquistati dal Danèla, alcuni stracchini e altrettanti salami, la curùna dol rosàre e ol santì de la Madóna de la Cornabüsa, preparate con cura dalle donne della casa, erano un concentrato di affetti familiari. Si aggiungeva lo zaino in spalla. Erano sempre molto gonfie quelle valigie e, per sicurezza, venivano legate con due robuste cinture.
Partivano insieme all’inizio della primavera, quei boscaioli all’antica, dall’accento rivelatore della parlata elvetica, anzi certe annate ascoltavano il primo canto del cuculo nelle foreste di abeti rossi della Confederazione d’Oltralpe, sognando la resurrezione dei prati in fiore della loro terra, la Valle Imagna, che avevano da poco lasciato. Quando il contratto di lavoro tardava ad arrivare, la partenza doveva essere posticipata di qualche settimana, ma ogni giorno essi aspettavano con trepidazione l’arrivo del pustì con la lettera raccomandata proveniente dalla Svizzera. Era tanta la voglia di ripartire, di lavorare e ricominciare la nuova stagione da bûcherons nelle foreste d’Oltralpe. La felépa, sempre appesa alla cintura, e il tintinnio provocato dal corlàs che vi scivolava dentro, trovando la sua collocazione di riposo, come la spada nel fodero del guerriero, erano un richiamo per intraprendere presto il lavoro nel bosco.
Raymond Amy, un ispettore forestale elvetico intervistato circa vent’anni orsono nella Vallé de Joux, affermava: “Ho sempre avuto alle mie dipendenze squadre di boscaioli bergamaschi. Lavoratori formidabili! Un’esperienza straordinaria, irripetibile! Partivano a novembre, dopo aver ultimato anche l’ultima cópa, diretti alle loro case in Italia, con il sorriso sulle labbra e li vedevo ricomparire, puntuali, all’inizio della primavera successiva, sempre con lo stesso sorriso stampato sul volto!...”. Riconosco, nelle parole di quel funzionario, consapevole di avere vissuto una stagione giunta ormai alla sua fase conclusiva, l’esperienza di mio padre e dei suoi fratelli. Così è stato per migliaia di boscaioli bergamaschi. Essi si accontentavano di poco. A loro bastava solo poter lavorare ed esprimere al meglio le abilità forestali. Il bosco era la loro casa. Durante il peregrinare nelle foreste alpine, da una cópa all’altra, dove trascorrevano anche diversi mesi, la sistemazione per la notte era costituita da ü barachì realizzato con semplice assito e ricoperto di goudron: il giaciglio serale - uno strato di stràm dol paièr e frosche de peghèra - consentiva il recupero delle forze, dopo la scödèla de menèstra la sira, o öna marmèta de polénta e cudighì. Ol barachì costituiva il punto di partenza, tutte le mattine, per raggiungere il posto di lavoro dove laorà de cópa e de stèr: abbattere piante per ricavare bóre ben scortecciate ad uso di legname d’opera, oppure ricavare legna da ardere. Rari i rapporti con i centri abitati, raggiunti di solito solo per l’acquisto di generi alimentari. Anzi, quando le distanze erano eccessive, i boscaioli portavano appresso alcuni sacchi di farina di granoturco, qualche gallina ovaiola e una o due caprette da mungere: polenta, uova, latte e carne di selvaggina costituivano gli ingredienti esclusivi della loro dieta per diversi periodi. La loro è stata una vita vissuta nel bosco. Una presenza silenziosa, ma efficace, costruita al margine delle comunità incontrate nel corso del loro vagare qua e là nelle foreste. Non si poneva la questione dell’integrazione. Eroi del bosco e martiri del lavoro. Combattenti nella battaglia per il lavoro e il progresso delle proprie famiglie, senza mai un lamento o un gesto di ribellione. Lavoro, risparmio, stile di vita quasi claustrale, dedizione completa alla famiglia e rispetto degli insegnamenti ricevuti sin dall’infanzia hanno segnato la loro vita. Persone positive, serene, capaci di affrontare situazioni difficili. Giornate di lavoro intense, consumate da stèle a stèle, ossia dall’aurora sino alle ultime luci del tramonto. Senza tregua. A mesdé bastava un pasto frugale consumato nel bosco. L’anziano boscaiolo richiamava l’attenzione del giovane apprendista, incaricato de ‘mpessà sö ol foch e tacà sö la polénta, alzando la mano chiusa a pugno e gridando a distanza: “Tanta e düra!”. La sera, rientrati al barachì, la giornata si concludeva con la minestra, o ancora polenta, che solo la domenica veniva accompagnata da un po’ di carne fatta cuocere sulla stufa.
La giornata era tutta una fatica, abbattendo e lavorando grossi faggi, ma soprattutto monumentali abeti, svettanti nel cielo anche quaranta metri, con la tronsönös che ha sostituito i primitivi rasgù, sigür e corlàss. Armi da taglio che hanno reso proverbiale il lavoro dei boscaioli bergamaschi nelle foreste alpine. Nel bosco ciascuno aveva il suo compito prevalente: abbattere le piante, oppure occuparsi di sramatura e scortecciatura. Ai giovani allievi - come sono stato anch’io per due anni nelle foreste elvetiche durante le vacanze scolastiche estive - affidavano i lavori meno pericolosi: sbransà fò col segöròt le piante più piccole, già abbattute e distese per terra; pelà i bóre col scursì, quindi mesörà i tronchi col méter, indicando con una tacca scolpita nella bóra il punto esatto per il taglio; infine ‘mpelà la lègna e fà sö i stèr “dalla buona misura”. Un lavoro costante, ininterrotto, senza sosta, da lunedì a sabato. Doveva piovere bene, per fermarsi, perché la semplice acquerugiola, con la giüba di ricambio o il sacco di iuta sulle spalle, non costituiva un impedimento al lavoro. La domenica mattina era riservata a faire la vaisselle, riordinando il proprio giaciglio, provvedendo al bucato e alla cucitura di qualche strappo di camicie e pantaloni; la mattina si poteva dormire un po’ di più, ma poi c’erano gli attrezzi del mestiere da preparare per la settimana successiva: molà e cadéne de tronsönös, ma anche le lame de sighür, scursì, corlàss,… Insomma, non c’era mai requie. A turno si cucinava e, quando le distanze lo consentivano, un boscaiolo della squadra si recava nella chiesa cattolica del paese più vicino per partecipare alla Messa, con l’intenzione di offrirla anche per töcc chi ótre. Il pomeriggio, dopo ol mesdé, era dedicato all’incontro con gli altri boscaioli bergamaschi presenti in zona.
Una vita semplice e intensa è stata quella dei lavoratori del bosco, cacciatori per antonomasia. I postumi di quelle immani fatiche continuano a farsi sentire, ogni giorno, nel fisico degli ultimi protagonisti della straordinaria epopea migratoria dei boscaioli bergamaschi, con le ginocchia e la schiena doloranti; le ferite da armi da taglio sono state ricucite, ma le ossa fratturate e poi ricomposte provocano ancora dolore; artriti e reumatismi, con töta l’aqua che ià ciapàt sö, accompagnano nel presente la loro quotidianità; mani tremolanti e doloranti, per problemi di circolazione sanguigna, sono rivelatori del costante tremito della tronsönös, fatta funzionare per giorni, settimane, mesi, anni, di continuo, incessantemente. Ciononostante sui loro volti, con l’immancabile sorriso, ho sempre letto la semplicità, la dignità e il coraggio di vivere.
Cèsco, superstite dell’ultimo drappello di questi boscaioli all’antica, ha consumato la notte scorsa il suo ultimo affannoso respiro vitale e in questo momento starà perlustrando le ampie distese dei Campi Elisi. Nelle ultime settimane usciva raramente di casa, le sue gambe ormai non lo reggevano più; da alcuni anni aveva cessato di appendere la felépa alla cintura dei calzoni, rimasta ormai orfana della sua arma da taglio, ma giù in cantina, accanto al secchio con dentro i sò fèr, ol corlàss l’è amò piantàt dét en dol sòch, come una spada nella roccia di antiche reminiscenze...
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