Passa ai contenuti principali

ÜH... PINO!


La fienagione del maggengo è quasi ultimata anche quassù, in montagna. Rimangono da falciare i praticelli distanti dalle contrade, molti dei quali ancora sprovvisti di strade trattorali, dove il tempo pare si sia fermato, non intaccati dalla modernità, e si ripetono ogni anno fatiche ancestrali.

Li chiamano “löch”, ciascuno seguito dal proprio inconfondibile toponimo, identificativo del contesto, e costituiscono particolari isole ambientali di radura, ormai costantemente minacciate dall’avanzare inclemente e disordinato del bosco: l’immancabile stalletta si presenta come un fortino a presidio delle modeste produzioni agrarie nel pascoletto e sulle piccole “sée”, nella boschina e sul fazzoletto di terra coltivato a prato stabile. Postazioni avanzate di controllo e governo del territorio, un tempo finalizzate soprattutto al sostentamento delle famiglie rurali.

Nel löch delle Patèrne, dove mi trovo in questo momento, il cui elemento onomastico mi riporta alle antiche proprietà trasmesse sulla discendenza dei Padri e dove la nonna Elvira ha sperimentato i primi rudimenti alla vita e al lavoro, non giunge ancora la strada carrale e il fieno si lavora tutto a mano, come una volta, fatta eccezione per lo sfalcio dell’erba, grazie all’apporto di una piccola motofalciatrice, lì depositata da anni in pianta stabile, che ha sostituito la vecchia ranza (falce fienaia).

 


Non ci sono giostre o ranghinatori, trattori e rotoimballatrici. Il processo di essiccazione coinvolge i presenti con i rumori, i colori e i profumi del prato in continua evoluzione.  Un prato esplorato quasi palmo a palmo con l’uso di strumenti tradizionali, quali il rastrello e la forca. Azioni e passioni riconducibili al mondo degli antenati. S’instaura un dialogo permanente con la distesa di foraggio, per cogliere il momento propizio del trasporto nel fienile, quando cioè la massa frusciante e dorata rimane quasi sospesa da terra e si lascia attraversare da un leggero venticello amico di tramontana. È così giunto il momento più faticoso, ma gratificante, a conclusione di un lavoro intenso che, in assenza di imprevisti e improvvisi attacchi temporaleschi, si conclude di norma in due giorni.

Alle Patèrne il grazioso praticello quasi pianeggiante disposto sul modesto poggio nascosto dal bosco, protetto a Nord da una svettante parete rocciosa verticale, gravita all’intorno della sua stalletta. 

 


Anziché utilizzare la tradizionale sdìrna, per il trasporto del foraggio sul fienile ci avvaliamo di un grande telo, ben disteso nel prato, sul quale caricare ras-ciàde de fé, dotato di una robusta cinghia che, avvolta attorno alle spalle del “somarello a due gambe”, funge da elemento di traino dell’ammasso di foraggio, così trascinato sino all’ingresso del fienile, situato nella parte retrostante della stalla.

L’uomo da soma procede lentamente a piccoli passi – i muscoli di gambe e braccia sono tesi come le corde di un violino – col corpo proteso in avanti per vincere la resistenza del grosso peso al traino. Forza muscolare, resistenza e adattamento alla situazione sono espressioni della ferrea volontà di superare e vincere quanto prima uno stato di necessità. Nella parte retrostante del grosso carico, Mirella, dall’indomita forza fisica celata dietro un esile corpo e capace di grandi gesti di altruismo, tiene salda la forca conficcata nel carico di foraggio in lento trascinamento, quasi per facilitare la spinta ed evitarne la dispersione nel prato. Ogni tanto, fors’anche per alleggerire la tensione del momento, ridicolizzando e vincendo così la strenua fatica, la sento gridare voce di incitamento:

- Üh… Pino!...

 


Mi ricorda l’asinello del nonno, acquistato proprio da mio padre per sostenere le ricorrenti fatiche del lavoro contadino in montagna, sul quale lo zio, morto ormai più di cinquant’anni fa per un incidente sul lavoro in un cantiere edile del milanese, mi caricava sul basto per trastullarmi in piccoli itinerari lungo la mulattiera selciata.

Il prato pare persino leggero, simile a una superfice fluida, per favorire lo scivolamento del grosso carico. Dopo una breve pausa a metà percorso, all’ombra di un silente alberello, la cui fresca brezza si posa sui volti grondanti di sudore, il “somarello” riprende il viaggio superando anche l’ultima salita, prima di raggiungere il piccolo spiazzo antistante al fienile.

Giunto a destinazione, di norma il conducente, tirando con forza il morso della briglia del quadrupede da lavoro, dà l’ordine di ferma:

- Õh… Pino!...

Nel nostro caso, ovviamente, non ce n’è stato bisogno.

Altra corsa, altra fatica, sin quando il prato si presenta, come d’incanto, ben pettinato e pulito, desideroso di accogliere finalmente una nuova benedizione dal cielo.

 


Per noi non è ancora finita. A forza di braccia, con il tridente il fieno viene nuovamente inforcato e, mucchio dopo mucchio, trasportato sul fienile, superando il caratteristico pertugio: un’apertura di ridotte dimensioni, stretta alla base, per limitare il passaggio ai soli pedoni, e leggermente più ampia nella parte superiore, a misura del fassì de fé o della ras-ciàde de fé, come quelle che abbiamo appena scaricato e sparse sulla grossa catasta di foraggio finalmente al coperto.

Pian piano tornano a galla alcuni insegnamenti del nonno, anzi mi sembra addirittura di risentire l’eco lontano della sua voce rinfrancante, che cerco di tradurre in azioni coerenti, mai scontate, né immediate:

- il fieno mè spàndel fò bé (va distribuito in modo uniforme sul fienile) e lagà mia dét de meòcc (ammassi di fieno legati tra loro come grumi), perché altrimenti si farà fatica, l’inverno, a tagliarlo con la màssa dol fé (arnese da taglio del fieno ben compattato nel fienile);

- il fieno mè pestàl bé, soprattutto lungo il perimetro dei muri del fienile, per renderlo compatto in modo uniforme;

- la mida dol fé (la parte di fienile che dà sö la pòrta de la stala dol fé) mè pegnàla dó bé, ossia va pettinata con la forca, sino a ottenere una perfetta parete verticale, come fosse ottenuta con l’uso del filo a piombo.

 

 

Alla base dei suoi insegnamenti prevaleva sempre il concetto che il lavoro, qualsiasi esso fosse, non bastava eseguirlo, ma andava fatto “bene”, nel migliore dei modi possibili.

Piccole, ma importanti attenzioni trasformano il fienile in un’opera d’arte, frutto dell’ingegno e dell’esperienza millenaria di generazioni di agricoltori e allevatori di monte, e attribuiscono al contesto il senso compiuto di un’opera particolare assolutamente in linea con quella generale e primordiale della Creazione.

È pomeriggio inoltrato quando ci avviamo lungo il sentiero che ci riporta a casa, mentre il sole pian piano sta calando dietro Seràda per andare a dormire, come tra non molto faremo anche noi, consapevoli di appartenere, con semplicità e spontaneità, al grande ciclo naturale della vita…

 



 

Commenti

Post popolari in questo blog

PIZZAIOLO, COLLEZIONISTA E INSTANCABILE ANIMATORE DELLE VICENDE DELLA SUA VALLE

Stefano Frosio Stefano non è solo un bravo pizzaiolo, comproprietario, assieme ai suoi fratelli, di uno spazioso esercizio pubblico situato proprio nel centro della Felìsa , dove con una certa regolarità metto le gambe sotto il tavolo per gustare una prelibata pizza accompagnata da speck e stracchino (quello nostrano, prodotto dai nostri allevatori di monte), alternata all’immancabile Fumata Bianca, farcita con diversi ingredienti. Una vera esplosione di sapori alpini e mediterranei. I meno giovani sanno che questa pizza è stata voluta alla memoria di Dante, suo papà, per non dimenticare quando, la mattina del 28 ottobre 1958, dalla stufetta istallata in prossimità dell’abitazione del noto fotografo della Valle Imagna, ma in luogo accessibile e visibile da tutti, fuoriuscì il fumo bianco: da quel momento ol Capelù - così la popolazione della valle lo aveva soprannominato, in relazione al suo vistoso cappello nero a larghe tese – ha iniziato ad annunciare a gran voce l’imminente elezio...

ADDIO LUGANO BELLA...

Fuipiano Valle Imagna, contrada Arnosto, anni '60. Centro Studi Valle Imagna, Archivi della Memoria e delle Identità. Fotografia di Rinaldo Della Vite In questo periodo, spesso senza accorgermene, mi ritrovo a canticchiare o a fischiettare la nota canzone anarchica Addio Lugano bella...   Ogni riferimento ideologico rischia di essere oggi fuorviante. Restano, però, i comportamenti, che si ripetono nella storia, e le tensioni imperscrutabili dell’animo.  Un pensiero costante, come un tarlo, mi ronza per la testa: l'inspiegabile atteggiamento di chiusura della nuova Amministrazione di Fuipiano nei confronti del Centro Studi Valle Imagna. Un affronto dietro l'altro. Dapprima la bocciatura del programma Berghemhaus , poi il “sequestro” dei nostri libri depositati da anni in alcuni locali non utilizzati messi a disposizione dal Comune. E non è finita qui. Ora partono gli attacchi personali.  Ritorna, a bassa voce, il motivo musicale: … Cacciati al par dei malfattori .......

FENOMENOLOGIA DEL RASTRELLO

Le mie mani si fanno rastrello accarezzano la terra restituendole riconoscenza e cura come a una madre ormai malata… (Mirella Roncelli)   Nonostante la meccanizzazione agricola negli ultimi decenni sia entrata massicciamente nei processi lavorativi connessi alla gestione del prato e del pascolo, del campo e della stalla, anche nelle diverse produzioni zoo-casearie della montagna orobica, alcuni utensili tradizionali non sono mai stati abbandonati del tutto, anzi molti di essi continuano a convivere accanto ai moderni macchinari e ad essere comunemente utilizzati. In questo periodo, in modo particolare, mentre tutta la Valle Imagna vive la sua apoteosi con la fienagione, capita spesso di vedere nel prato contadini affaccendati con il rastrello impugnato tra le mani, come tanti cavalieri armati di lancia, utilizzato insieme al ranghinatore; nei medesimi prati vengono adoperate con energia antiche forche accanto a moderne rotoimballatrici, piccole moto-agricole e grossi trattori c...