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LA GRANDE “CIPOLLA” DELLA NOSTRA ESISTENZA

Le prime gelate del tardo autunno capitate all’improvviso, con freddo intenso e temperatura sotto gli zero gradi durante la notte, anticipano il sopraggiungere della stagione invernale ormai alle porte. Sulle alture tinte di bianco che circondano la valle, tanto a mezzogiorno in direzione della piana lombarda, quanto a Nord verso la Valle Taleggio, è arrivata la prima neve, mentre il Resegone domina sui villaggi dell’Alta Valle Imagna nella sua veste regale con manto d’ermellino. Vacche e manzette dei piccoli allevamenti di monte sino alla scorsa settimana popolavano ancora i prati per il pascolo del tersöl, rivelatosi abbondante: ora, però, si sono ritirate nelle stalle, con i fienili soprastanti rigonfi di fieno. Qualche coraggioso allevatore non si lascia intimorire dai primi grani di ghiaccio bianco-opachi che la mattina ricoprono le esili foglioline e gli steli d’erba nel prato e continua a lagà ‘ntùren àche e mansöi, offrendo però ai bovini in libertà la possibilità di un riparo provvisorio, anche una semplice tettoia, dove trascorrere la notte o cercare protezione durante le peggiori avversità atmosferiche per pioggia e neve.

 

  

Da qualche settimana i richiami della mamma si sono fatti sempre più insistenti e perentori:

- Cosè n’fét amò ‘ntùren de chèle àche?

Proveniente da una famiglia di piccoli allevatori di monte – per lunga tradizione zoo-casearia di papà e nonno – la coraggiosa e generosa regiùra non ha mai protratto il periodo dell’alpeggio oltre i Sàncc e i Mòrcc, le due grandi ricorrenze agli inizi di novembre. Da quel momento i àche le ‘ndà stalàde! E’ sempre stata la sua regola. Sulle Prealpi orobiche si anticipava di qualche settimana l’evento che, alla Bassa, seguiva la festa di Santa Caterina (25 novembre), quando vigeva il proverbio: per Santa Caterìna, i àche en cassìna. Per la mamma, poi, ogni vacca era molto di più di un semplice capo bovino, la chiamava per nome, anzi pareva persino un componente della famiglia e posta al centro di cure e attenzioni: si preoccupava che non avesse freddo al pascolo e che non prendesse troppa acqua, come pure dentro la stalla che non sudasse per il caldo. L’estate appendeva una frosca davanti alla porta della stalla, così pure sulla finestrella, per rinfrescare l’ambiente e tenere lontane le mosche. Allevava i quadrupedi costantemente sotto il suo sguardo vigile per cogliere ogni possibile indizio circa il loro stato di salute. Durante l’alpeggio, anche nel corso della stagione estiva, la sera rinchiudeva sempre le vacche nella stalla, al sicuro, perché la notte e il buio sono portatrici di pericoli. Le vacche, soprattutto nel passato, segnavano i ritmi di vita della famiglia, non solo stagionali, ma anche giornalieri e, mentre oggi spesso stanno al pascolo giorno e notte, sino agli anni Sessanta del secolo scorso la bergamina veniva accompagnata a pascolare circa tre ore la mattina e altrettante durante il pomeriggio. Non avevano ancora fatto la loro comparsa i moderni recinti elettrificati e, a vegliare sulla mandria e i confini assegnati, in base ad un uso parsimonioso di prati e pascoli, venivano impiegati i bambini della famiglia, con ausilio del cane pastore.

 

 


Ora che le vacche sono rientrate nella stalla, anche la mamma si è tranquillizzata. L’inverno le stalle si ripopolano e tornano a svolgere i servizi di sempre, per i quali sono state pensate e costruite sin dai secoli scorsi: centri di riferimento per numerose attività rurali, laboratori per piccoli lavoretti agresti, luoghi di incontro per le persone della famiglia e non solo, ma soprattutto ambiti riservati alla bergamina, dove i diversi capi di bestiame possono trascorrere la cattiva stagione, in attesa di tornare a respirare nuova aria di libertà la primavera successiva. Non che prima fossero abbandonate, ma durante la bella stagione le attività primarie della famiglia rurale erano concentrate nel prato e nel pascolo, nel campo e nel bosco. Ora, invece, grazie alle scorte di foraggio (peraltro mai sufficienti) messe al sicuro nel corso della fienagione, i piccoli allevatori di monte si apprestano a trascorrere gran parte del loro tempo con la bergamina, nei dintorni della stalla, in prossimità della contrada di residenza. 

 

 

 

Se vi addentrate nelle nostre contrade la mattina presto o la sera tardi e vedete brillare una luce in un edificio nei dintorni, con buona probabilità sappiate che lì vive una famiglia bergamina e qualcuno è affaccendato in una delle tante attività zoo-casearie della piccola azienda di montagna. Costituiscono i veri presidi della montagna, ancora in grado di stringere strette alleanze con il territorio e le sue risorse. Si sa che, quassù, il lavoro degli allevatori, all’occorrenza anche agricoltori e boscaioli, va da stèle a stèle. Sono sempre tanti i lavori che richiedono, anche nella stalla, l’intervento dell’allevatore: guarnà e stramà, muns e cagià,… due volte al giorno, mattina e sera. Tutti i giorni di tutte le settimane di tutto l’anno. E poi gh’è da fà la fòia, bàt dó e spànd fò ol rüt, ripulire prati e pascoli, accendendo qua e là fogarì per bruciare ol patös. Non c’è mai vacanza. Senza considerare gli imprevisti, sempre in agguato, per il parto della vacca, ü cùlp de mòrbe, un’improvvisa infiammazione. Quante notti la mamma ha trascorso nella stalla in attesa del parto ormai imminente di una vacca, per non farsi trovare impreparata a questo grande evento della famiglia!

 

  

La modesta bergamina che ho avuto in consegna da Francesco (il giovane allevatore è occupato con il resto della mandria in lattazione, il gregge delle pecore da latte e l’attività di caseificazione), è composta da tre eleganti “signore” - Mariaelena, Gute e Kate – vacche di razza grigio alpina ormai prossime al parto (atteso a febbraio), e quattro giovani “ragazze”, manzette di un anno e mezzo che non hanno ancora figliato. La mandria ha trascorso sette mesi, da maggio a novembre, libera nei prati e pascoli dell’Alta Valle Imagna, dagli ottocento ai mille metri di altitudine, sempre in movimento e transumante nei paesaggi mutevoli da Calsinù a Sotacòrna, dai Ruch de Regòrda a Cà Berés, dal Fughì ai Calf, dai Crüsür alla Zòcla, dai Pascolècc a Prabicù,…. Ora è collocata a riposo nella stalla, in attesa di ricevere, due volte al giorno, la necessaria razione di fieno nella traìs, accompagnata da una pietanza di sostenimento costituita da panèl e farenòs. Mattina e sera, quando entro nella stalla, le “signore” di quel singolare convivio si alzano in piedi, come fa la classe quando sale in cattedra il maestro, e si agitano, in attesa di ricevere l’attesa alimentazione. Di norma le trovo sdraiate che ruminano. Seguono incuriosite ogni mia azione impugnando dapprima la raspa, poi il ràscc dol rüt, quindi la fùrca dol fé, infine la scùa de bachète. Si muovono lentamente di qua e di là, in relazione ai miei spostamenti nella stalla. Si instaura un dialogo silenzioso, fatto di gesti e azioni, sguardi e richiami: abitualmente mi piace chiamarle ancora per nome e offrire loro una carezza su quel muso docile anche se armato di robuste corna arcuate. Mè saì ragionà coi anemài!..., afferma con decisione ol Carlì, l’ultimo bergamino, in un recente film-documento prodotto dal Centro Studi Valle Imagna. Così ha sempre fatto anche la mamma che, nonostante la sua età le impedisca di ritornare alla stalla, come invece vorrebbe, continua a farmi dono di consigli bergamini, frutto di esperienze dirette e concrete.

 

 

 

La stalla rappresenta una sorta di ritorno alle origini, un rifugio dell’anima, dove è ancora possibile recuperare la propria appartenenza alla terra, alla famiglia, alla storia, per sentirsi inseriti in una relazione di continuità con il passato, con un mondo antico dal quale tutti quanti proveniamo. Sul piano professionale mi sono sempre dedicato ad altro, alle lettere e alla pubblica amministrazione, impugnando quindi abitualmente la penna per tracciare in continuazione segni, lettere e significati sulla carta. Ma le storie, i valori, le esperienze di vita di quel mondo antico non mi sono mai stati estranei, anzi col passare del tempo avverto rispetto ad essi una sorta di naturale attrazione. Mi chiedo da dove nasca questa inclinazione e il piacere di lasciarmi trasportare con affetto e simpatia dal vento identitario di questa dimensione ancestrale.

 

 

 

Mi avvalgo di una similitudine con il mondo della natura, come si usava fare un tempo, mettendo in correlazione due livelli di pensiero nel paragonare la vita con la cipolla. Se apriamo a metà questa nota pianta erbacea, tagliandola lungo il suo asse principale, osserviamo impressi sulla sezione della sua forma sferica una serie di strati come cerchi concentrici; non esiste un involucro esterno che li contiene e racchiude, buccia o scorza: solo una membrana molto sottile avvolge il noto bulbo e ne identifica la sua collocazione all’interno di un’ampia gamma varietale. Ecco il confronto spontaneo: se scaviamo sottotraccia e ci spogliamo della parte superficiaria ed esterna, quella più recente del nostro presente quotidiano, riscopriamo i vari strati della nostra esistenza, sino a raggiungere il cuore, l’anima, i significati più profondi e meno appariscenti del nostro esistere. Ogni piano coincide a una tappa della nostra esistenza personale, come pure, se parafrasato alla famiglia, alla collocazione generazionale dei singoli individui. La cipolla, come l’individuo e la famiglia, si trasforma in un grande contenitori di storia e di memoria. Il passaggio da uno strato all’altro non è indolore e ce lo ricorsa bene la cipolla con il suo potere lacrimogeno. Come avviene per la cipolla, se scaviamo nel solco della nostra esistenza, superando gli strati più evidenti del presente, si possono ancora incontrare e recuperare le appartenenze personali, quelle della famiglia e del gruppo sociale di riferimento, riconoscere così la nostra collocazione sulla linea a spirale del tempo e recuperare le sintesi valoriali in grado di ricondurci all’essenza delle cose e di noi stessi. Mauro Corona ci consiglia di imparare a “togliere”, invitandoci ad abbandonare la malsana abitudine, propria della società dei consumi, di “aggiungere”,  mai paghi dei traguardi raggiunti, per poter ritrovare quella preziosa relazione attiva e costante dell’uomo con la natura, tipica della preesistente società rurale. Aggiungiamo valore alla nostra esistenza solo se riusciamo a scrollarci di dosso il peso di orpelli e divagazioni superflue, che ci distraggono e ci fanno solo perdere tempo e orizzonti.

Giunto ormai all’alba dei miei primi sessant’anni, ci provo, ritornando ogni giorno alla stalla…

 


 

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