E’ prossimo ormai il tempo per la caccia al capanno
con lo “scoppietto”, come lo chiama l’Abate Angelini nel Settecento, che si diletta nel descriverne l'azione, dopo aver annotato con minuzia di particolari altri strumenti in uso per la cattura dei volatili, quali reti, archetti, roccoli,... In queste
ultime settimane i cacciatori sono intenti a riordinare i loro appostamenti, rinnovando il mascheramento di casòcc e froscadì, sostituendo le pèrteghe
per la posa dei volatili distribuite a
media altezza tutt’attorno al capanno,
come una fitta rete di intrecci tessuti tra un albero e l'altro, alcune delle quali rovinate dalle intemperie o danneggiate dal pascolo dei
bovini.
Con lunghe scale, gli uccellatori raggiungono la parte sommitale degli alberi distribuiti all’intorno, per srarì le ampie chiome frondose e ampliare così il campo di osservazione, mentre il praticello viene ben rasato e trasformato in un verde tappeto all’inglese. Non c’è una cosa fuori posto! I gabbiù sono anch’essi rimessi nuovamente in funzione, accostati al tronco di alberi o nascosti tra i cespugli, dentro i quali, tra poco più di una settimana, alle prime luci dell’aurora settembrina cominceranno a svolazzare e a cinguettare merli e tordi da richiamo. Entro un raggio di circa cinquanta metri dal capanno, tutto è preordinato all'attesa degli sventurati volatili, stanziali e di passo, che cadranno vittime dell’imboscata. Anche sui grossi tronchi degli alberi circostanti, bèdole e sarìse, càrpegn e rùer, appese a chiodi conficcati nel vivo legno e protette da una lamierina colorata di verde, piccole gabbiette di volatili canticchianti completano lo scenario della fortificazione campale, protetta e invalicabile, dove il cacciatore osserva silente la selvaggina per catturarla. Sulla cima della grossa rùer, come una protesi, svetta ol fruscù, il grosso ramo tentacolare le cui fronde, ormai essiccate, soprattutto ad autunno inoltrato fungeranno da punto di attrazione e posa per gli uccelli di passo. Una vera e propria bandiera dell’uccellatore. Pratiche antiche si rinnovano di anno in anno e si tramandano da una generazione all’altra. Tradizioni secolari mantengono una relazione vivace e persino devota con il territorio, almeno sin quando nei seguaci di Sant’Uberto non verrà meno l’adesione alle pratiche rurali di gestione dell’ambiente che durano tutto l’anno e non si limitano solo al periodo della caccia.
E per dir vero a me piace la caccia
Sol, che col suo danar vien fatta in piazza,
Dove adivien, che a gusto suo si faccia.
Infinito uccellame anco s’ammazza
Collo scoppietto, che da ramo in fronde
Saltella, o poggia, o per l’aria svolazza.
L’uccellatore poi scaltro s’asconde
Al varco, dove con desio l’aspetta
Dal bosco, cespo, pianta, o pur altronde.
Or chino, or ritto, or lento, ed or in fretta,
Ore tentone, or infianco, ed or contorto
Con la canna a la spalla ei va diretta.
E quando a tiro poi l’augello ha scorto
Fermo il piè, chiuso un occhio il tien di mira,
E prima di colpirlo il crede morto.
Poscia col dito il chiavistrello tira,
La ruota gira, cade il can, la pietra
Batte il focil, che s’alza, e si ritira;
E a le faville sul focone impetra
L’appiccarsi a la polve, e sì ‘l foco erra
Rapido, che entro a la canna penetra,
E fuor del cavo suo centro disserra
Contra l’augel pallottole di piombo,
da cui volanti ucciso cade a terra.
La fiamma è subitana, ed il rimbombo,
E ‘l colpo dell’augel; lo spruzzo frulla,
E delle palle sparpagliato il rombo.
Quest’è l’uccellagion, che più trastulla,
D’ogni sorta d’uccelli, ma si prende
Da chi non mira bene o poco, o nulla.
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