Mi è stata chiesta una breve riflessione sull’espressione fotografica di Alfonso Modonesi, sviluppatasi ormai nell’arco di circa sessant’anni, testimone delle diverse vicissitudini sociali e culturali che hanno attraversato la seconda metà del Novecento. La mole di negativi, stampe originali, diapositive è confluita nel Museo delle Storie di Bergamo, dove la fotografia ha assunto una posizione cardine anche nel settore della documentazione dei beni culturali, acquisendo prestigio in campo internazionale. Concentro la mia visuale all’interno della Valle Imagna, il territorio dove vivo, così magistralmente documentato negli anni Sessanta dal nostro Autore attraverso centinaia di scatti: questo piccolo lembo di terra dominato dal Resegone ha costituito un prezioso laboratorio di ricerca per diversi fotografi, mossi dalla passione del raccontare e intenti a fissare sulla pellicola la realtà nelle sue espressioni più autentiche ed eloquenti, perfezionando così la tecnica del reportage e ricercando in continuazione, ben oltre le apparenze più immediate poste davanti all’obiettivo della macchina fotografica, i significati e i sentimenti dell’essere e dell’agire umano, anche attraverso la messa a fuoco del volto dei luoghi e delle architetture.
In quel periodo la fotografia ha registrato una sorta di rivoluzione copernicana e molti fotografi d’avanguardia sono usciti dai loro uffici, accantonando i tradizionali modelli del ritrattismo, delle immagini di posa costruite in studio, con l’impiego di sfondi ricorrenti, e sono, per così dire, scesi in strada, andando incontro alla gente e documentando en plein air (mutuando un’espressione cara agli impressionisti nella pittura), ossia nei luoghi abituali della vita e del lavoro delle persone, azioni, gesti e sottili sfumature della loro dimensione quotidiana. Ne è scaturita una fotografia d’azione, in movimento, nata col bianco e nero, ma ugualmente in grado di trasmettere le vibrazioni della luce naturale e i colori dell’anima di volti, gesti e ambienti ancora autentici. Andando ben oltre l’apparenza.
Ho conosciuto molti di essi, da Merisio a Brambilla, da Modonesi a Leidi, da Della Vite a Terzi, da Moreschi a Calegari, a Frosio…, per citarne alcuni, e dalle migliaia di fotografie consegnate per sempre alla Storia, che ho potuto scorrere e osservare attentamente nell’ambito dell’attività del Centro Studi Valle Imagna e della collana editoriale di Foto-impressioni (di Modonesi abbiamo pubblicato ben due foto-libri, Chelò e Fogliò), mi pare di cogliere un filo rosso che li accomuna, lega indissolubilmente le loro esperienze e le ricongiunge all’interno di un grande affresco di umanesimo sociale, fortemente orientato a cogliere la dimensione umana del Creato. Nei diversi racconti fotografici si coglie immediatamente la centralità dell’uomo, declinata nell’azione quotidiana all’interno degli ambienti di vita e di lavoro. C’è un’anima dietro ciascuna di quelle fotografie. Esse sono il frutto di un profondo atto di amore nei confronti della storia e della vita.
Gli anni Sessanta hanno visto il fiorire della ricerca sociale per immagini e la fotografia è diventata uno strumento formidabile non più solo per l’espressione artistica, ma finalizzata soprattutto all’elevazione spirituale di ambienti e persone coinvolti da un epocale e incontrollabile processo di trasformazione culturale. Penso di non esagerare affermando che la fotografia, per Alfonso e gli altri esponenti della “Scuola” fotografica bergamasca, organizzata e diffusa attraverso pratiche individuali e strutturata in diversi Circoli, abbia espresso una decisa caratterizzazione umanistica. I maestri fotografi, come Pepi Merisio, sono stati di esempio per i giovani allievi e le riflessioni circa il valore artistico e sociale di una “bella fotografia” alimentavano nuovi e vivaci entusiasmi.
In quel periodo la fotografia orobica di reportage ha saputo confrontarsi positivamente con le nuove tecniche e modalità di ricerca che stavano venendo avanti negli altri Paesi d’Oltremare, rappresentando lo strumento principale per il recupero dei valori sociali, lo studio della realtà, la documentazione e la divulgazione di ambienti umani straordinari, allora sotto attacco dalla grande trasformazione sociale ed economica. Ma soprattutto è stato un veicolo propedeutico alla formazione di una nuova coscienza sociale, facilitando il riconoscimento di luoghi, espressioni e significati misconosciuti dal nuovo corso del progresso. Questi fotografi, tutti insieme, hanno gettato solidi pilastri per l’identificazione di una nuova possibile civiltà rurale e urbana, oppure, se vogliamo, per salvare preziosi elementi strutturali della realtà (ambienti tradizionali e antichi mestieri) e i principali modelli di famiglia e di comunità propri del mondo contadino della montagna e della pianura orobica, nell’ottica di ricostruire relazioni sociali sostenibili, a misura d’uomo e per una diversa qualità della vita. Grazie ad essi, possiamo disporre oggi di una straordinaria raccolta di immagini d’autore concernenti la storia sociale delle popolazioni orobiche in un periodo cruciale di trasformazioni epocali.
L’indiscutibile valore storico-documentale delle fotografie di Alfonso ci consente oggi, a distanza di circa sessant’anni, di ricostruire i caratteri salienti dell’esperienza insediativa tradizionale, che quassù, nei secoli scorsi, ha caratterizzato la vita e l’organizzazione sociale delle popolazioni rurali. La maggior parte di quegli ambienti umani non ci sono più, oppure sono stati radicalmente trasformati e resi irriconoscibili. La fotografia si presenta quale formidabile strumento di memoria collettiva. Ci viene offerto un grande racconto d’insieme della nostra dimensione collettiva, che si sviluppa attraverso diversi capitoli, sempre calati nella vita concreta e quotidiana delle persone, colte nei luoghi di sempre, mai scontati. Le sobrie architetture di stalle, case e contrade di pietra, ci restituiscono la presenza di famiglie estese raccolte in ambienti semplici ed essenziali, austeri e resistenti all’inclemenza del tempo e dell’abbandono da parte dell’uomo.
Dalle azioni di robuste massaie, intente alle diverse faccende domestiche, ma soprattutto dai loro volti sinceri, sorridenti e tondeggianti, traspare il senso della famiglia e la dedizione al lavoro. Dai bambini della scuola elementare di Bedulita, in girotondo nel cortile durante la ricreazione di metà mattina, tutti rigorosamente col grembulino nero e colletto bianco, e dalla loro maestra, anch’essa con abito di rito, cogliamo il senso della comunità, la medesima che osserviamo nel gruppo di bambini colti in ordine sparso nella contrada Medile di Locatello, oggi radicalmente trasformata.
Col venir meno di quegli ambienti, si è frantumata e dispersa anche la comunità rurale tradizionale, dove la dimensione collettiva prevaleva decisamente rispetto a quella individuale e i bisogni del gruppo erano prioritari rispetto a quelli dei singoli. Le fotografie di reportage documentano anche ciò che non si vede, come l’assenza nelle contrade degli uomini l’estate, lontani, anche all’estero, per lavoro. L’emigrazione era di casa in quel periodo, anzi era vissuta come un fatto naturale. Nelle contrade rimanevano solo gli anziani, le donne, i bambini e alcuni piccoli artigiani, qualche bergamì e mulinèr, turnidùr e maringù,…
Come non richiamare alla luce il capitolo dedicato al Cìnqui, l’ultimo maér della contrada Fusìne di Locatello, definitivamente devastata e sventrata negli anni Ottanta dal passaggio dei bulldozer durante la costruzione di un tratto di fognatura.
Il volto di quelle persone e l’aspetto di ambienti rurali dalla forte connotazione umana costituiscono oggi una eredità culturale di prim’ordine: ciascuna fotografia è l’indice di un racconto, l’impronta lasciata sul terreno della storia sociale da quanti hanno solcato, vissuto e plasmato i versanti e il fondovalle della conca imagnina del Resegone; ma è anche un monito per non ripetere gli errori commessi nel passato, soprattutto quando, seppure inconsapevolmente, abbiamo buttato con l’acqua sporca anche il bambino…
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