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VISITA A BATTISTA LA VIGILIA DI FERRAGOSTO



Più volte, durante il nostro peregrinare nella storia sociale ed economica delle popolazioni della montagna orobica, abbiamo colto la centralità della famiglia, quale fattore coagulante gli interessi e il lavoro dei vari membri: un formidabile strumento di resistenza rurale e binario di scorrimento e trasmissione di tradizioni professionali, comportamenti e modi di vivere. Soprattutto nel passato, la famiglia normalizzava la vita dei diversi componenti, distribuiva e perequava compiti e impegni, agiva da freno rispetto alle possibili fughe individuali, suppliva alle carenze dei singoli ed era in grado di chiudere eventuali falle nel sistema parentale, che si aprivano al suo interno e ne potevano pregiudicare l’integrità; costituiva un’àncora di sicurezza per l’individuo e agiva da referente e garante dello stesso nei confronti di tutta la comunità rurale. La forza della famiglia si misurava anche nel numero dei suoi componenti, che contrassegnava la capacità del gruppo di fronteggiare le situazioni esterne più impegnative; l’elemento, un tempo determinante, della coabitazione, la trasformava in una forte unità “combattente”, in grado di affrontare qualsiasi avversità, grazie anche alla sua organizzazione interna strutturata su una rigida gerarchia di ruoli e competenze, con ai vertici le posizioni di comando ben riconosciute e rispettate da tutti. La forza del gruppo superava quella del singolo individuo: quest’ultimo svolgeva funzioni subordinate agli interessi generali, i quali avevano sempre il sopravvento e, spesso, negavano le aspirazioni particolari. Per difendere l’integrità del patrimonio e tenere insieme i diversi componenti della famiglia estesa, ad esempio, valeva la rinuncia al matrimonio di un figlio maschio (lo zio barba), il quale, continuando ad abitare l’antica casa, avrebbe impedito il frazionamento della proprietà e lo smembramento della famiglia. Così pure accadeva di frequente che, a fronte della morte (accidentale o a causa di malattia) di un figlio sposato, uno dei suoi fratelli non ancora maritati sposava la vedova (già cognata), per evitare l’eventuale intrusione di soggetti diversi o la dispersione del patrimonio, ricucendo così lo squarcio venutosi a creare nella struttura parentale e garantendo le condizioni di sicurezza e sopravvivenza di tutti. Lo stato di necessità e la difesa delle già precarie condizioni di vita condizionavano le scelte dei singoli individui. 



Basta sfogliare i Registri della Popolazione in uso tra la fine dell’Ottocento e i primi lustri del Novecento, conservati negli archivi comunali, oppure gli Stati delle Anime presso le parrocchie, per ritrovare gruppi parentali costituiti anche da dieci, venti, trenta e più membri. In cima alla piramide di ciascuno di essi c’era il Capo (attualmente – relativismo imperante – il concetto di Capo-famiglia è stato sostituito dalla figura di Intestatario della scheda), ol Tata, generalmente chiamato anche Colonèl. Alla sua morte, la funzione di Capo poteva essere anche ricoperta dall’anziana vedova, la quale si sarebbe avvalsa di un amministratore della famiglia, scelto preferibilmente tra uno dei figli. Non è dunque così fuori luogo l’accostamento dell’organizzazione familiare a quella di un’unità militare. Le posizioni di comando e quelle subordinate erano evidenti, declinate rispettivamente nelle diverse figure di madòna e missìr, regiùr e regiùra, tosài e spuse, tosà e niùcc,… La scala della gerarchia familiare collocava ciascun soggetto al suo posto ed era assai difficile per l’individuo sottrarsi alle funzioni connesse al proprio ruolo. In presenza di contrasti, intervenivano di solito le figure femminili, soprattutto madòna e regiùra, che svolgevano un’azione di mediazione, perché – si sa – en d’öna faméa mè tègn dét ‘mpó töcc e, tante volte, mè fà pà e fam. La solida e rigida struttura sociale della famiglia rurale è durata sino alla prima metà del secolo scorso: si riconosceva in modo evidente soprattutto nelle comunità locali di bergamini, piccoli agricoltori e boscaioli, più legate al lavoro della terra, ma anche nei gruppi professionali ad esse dipendenti, come quelle dei mulattieri e carrettieri, lattai e falegnami, mulinèr e maèr,… che svolgevano diverse attività di servizio. 



Gli insediamenti rurali tradizionali rispecchiano fedelmente questa organizzazione parentale, anzi ne trasmettono forse l’immagine concreta più eloquente attraverso il processo di formazione delle contrade, che costituiscono gli stretti ambiti di sviluppo delle famiglie, dove cioè esse sono nate, si sono sviluppate e proposte alle future generazioni. Case, stalle, fienili, pollai, essiccatoi,… ma anche piccoli oratori, spazi di incontro civili e religiosi, si presentano assai coesi e di prossimità, costruiti gli uni quasi a ridosso degli altri, nella continuità di spazi interconnessi e inscindibili, così come esteso e indissolubile era il vincolo di appartenenza del singolo alla sua famiglia. Lo stretto binomio rurale “famiglia-contrada” ha condizionato le sorti di entrambi gli elementi, che non potevano coesistere separatamente. Giocando sempre con la similitudine col contesto militare, la contrada per la famiglia è stata come la caserma per i soldati, ossia il luogo dove ci si organizza, si riposa, si ricompongono le forze e ci si prepara a combattere la battaglia quotidiana del lavoro, tanto nei prati e boschi circostanti, quanto sulle diverse strade del mondo. Nuclei familiari e insediativi si sono irrobustiti attraverso il medesimo processo di sviluppo: l’organizzazione parentale si ampliava parallelamente al rafforzamento della casa e della contrada, predisponendole alla difesa e in grado di resistere ad attacchi esterni. Ancora oggi, case e contrade tradizionali si presentano quali piccoli centri fortificati, con case simili a torri e mura di cinta che delimitano il perimetro abitato e affermano la forza delle famiglie. Ho questa sensazione ogni qualvolta mi addentro nelle antiche contrade, oppure quando scendo in automobile da Fuipiano, dove mi reco settimanalmente per lavoro: da uno degli ultimi tornanti osservo dall’alto l’abitato di Disdiroli e rimango ogni volta senza fiato. L’immagine che traggo è piuttosto quella di un intero villaggio, più che di una semplice contrada, tanto è bene articolato quello spazio risalente al periodo medioevale, con edifici rurali, abitativi e produttivi, costruiti uno a fianco dell’altro, spesso con murature confinarie in comune. La distribuzione e complessità degli elementi edilizi trasmette un risultato di concretezza e organicità. La coesione dell’insediamento, evidente anche a occhio inesperto, è stato determinato dal graduale rafforzamento delle famiglie storiche lì residenti (Calderoli, Rodeschini, Rota,…) e dalla necessità di condividere i medesimi spazi abitativi, per esigenze di reciproca mutualità. All’intorno dell’organismo articolato e circolare di edifici di pietra, una fitta vegetazione di boschi e prati dichiara la netta caratterizzazione rurale. Quelle case attualmente sono in gran parte disabitate, molte porte d’ingresso sono chiuse da tempo. I discendenti di quegli antichi gruppi parentali di monte si sono ormai stabiliti definitivamente all’estero, nei Paesi d’emigrazione dei loro padri, oppure in città, per l’esercizio semplificato di arti e professioni e la facile fruizione delle opportunità offerte dai consumi e dai servizi. Resistenti e ritornanti – pochi da entrambe le parti - non bastano per restituire alla contrada la vivacità sociale e la dinamicità produttiva di un tempo. 



Ieri, vigilia di ferragosto, sono ritornato a Disdiroli per una visita a Battista, ol Préto, fedele espressione e operosa memoria vivente della sua amata contrada. Fa parte di quel drappello di persone - Ahimè si sta assottigliando sempre più - rappresentativo di un contesto rurale ormai decisamente superato. Battista sta ai mulattieri e carrettieri, così come Carlì (vedasi la precedente nota del 3 agosto scorso) sta ai bergamini. Egli vive nell’antica casa paterna, dove è nato ed è diventato grande, posta a occidente della contrada, in prossimità della cavalcatoria selciata che prosegue in direzione di Fuipiano, il villaggio soprastante. In quella grande casa, dove vive con sua moglie, occupa ormai pochi locali al piano terra: per problemi di deambulazione i coniugi da pochi anni hanno dovuto rinunciare anche alla loro camera nuziale al piano superiore. Quella casa un tempo piccola nella quale viveva la sua antica famiglia estesa, ora è diventata persino eccessiva per le modeste esigenze abitative di Battista e Elena. Per quanti non conoscono la complessità delle vecchie case contadine, pare di trovarsi dentro un labirinto sconosciuto, disposto su diversi piani, tra cucina, fundì, cantine, camere, ripostigli, legnaia, laboratorio meccanico, corte esterna… C’è ancora tutto l’indispensabile per continuare a sostenere la vita nella contrada rurale, ma i figli, a seguito del matrimonio, si sono trasferiti altrove, pur continuando a riversare sui genitori affetto e attenzioni. Battista è seduto al tavolo accostato alla finestra – era sempre così nelle vecchie cucine, a volte anche un po’ buie – per ricevere più luce, ma anche per tenere sotto controllo la vita all’esterno, sö l’èra de cà, avvistando per tempo l’arrivo di estranei. Coesistono elementi di tradizione e modernità. Battista è stato educato a non buttar via niente, poiché tutto, prima o poi, e l’pöl gnì bu e quindi ritrovare una sua funzione. Il vecchio camino coesiste, proprio lì, dove è sempre stato, accanto alla stufa economica e, poco appresso, anche il moderno termoconvettore alimentato a gas metano contrassegna l’evoluzione dei tempi. Battista, la sua famiglia di ieri e di oggi, la contrada avita sono la stessa cosa: un lungo processo di immedesimazione, durato tutta l’esistenza, tiene insieme i tre elementi della stessa dimensione rurale, come parti ormai inscindibili di una formidabile espressione di umanità. Battista è la sua famiglia e la sua contrada. È un piacere stare ad ascoltarlo e le sue parole, mai scontate, riflettono anche la vita della famiglia e della contrada. È un bravo affabulatore, come pochi al giorno d’oggi, e la sua invidiabile capacità narrativa, molto simile a quella del Carlì, trova origine in un personaggio che ha vissuto da protagonista, dentro e fuori la corona geografica del Resegone orientale, sicuro di sé, consapevole di essere attualmente uno dei pochi depositari di storie patrie della contrada e del paese. Classe 1930, il mio interlocutore è un uomo ancora molto determinato e presente, dal fisico possente e slanciato, le grosse mani mantengono una presa ferma, nonostante i suoi novant’anni gli impongano di utilizzare i due bastoni durante le brevi uscite e la schiena a volte pare cedere e attorcigliarsi su sé stessa. 



Ho portato appresso il registratore digitale, come sempre faccio quando mi accingo a incontrare informatori di un certo interesse: in questo caso, però, non l’ho utilizzato, poiché sono stato subito attratto dalla sua efficace capacità narrativa. Battista è seduto al tavolo di fronte alla finestra, io al suo fianco, fisicamente e spiritualmente vicino. La relazione dialogica si sviluppa attorno a una naturale e spontanea trama narrativa, quella del lavoro di mulattieri e carrettieri, bergamini e boscaioli. Lui, l’anziano Capo-famiglia trasmette esperienze personali, vissute ormai tanto tempo fa, mentre io lo seguo, tessendo continui confronti e ottenendo importanti conferme. Lui racconta, io ascolto. Battista rivela sé stesso, anche attraverso il vissuto concreto della sua famiglia e degli abitanti della contrada e della valle, mentre io condivido la sua storia, la accolgo e contestualizzo nell’ambito delle molteplici testimonianze orali sinora acquisite. È convincente e persuasivo, eloquente e coinvolgente. Pare persino uno specialista di storytelling e, alla narrazione di fatti e vicende oggettive, fa seguire sempre la sua valutazione personale, alternando proverbi locali e vecchi modi di dire. Alcuni anni fa avevo già raccolto la sua testimonianza, ora conservata negli Archivi della Memoria e dell’Identità del Centro studi Valle Imagna, utilizzando i protocolli d’indagine e di rilevazione delle fonti orali messi a punto dal sodalizio culturale. Durante quest’ultimo incontro, invece, mi sono lasciato catturare dal contesto emotivo generato dal prezioso superstite del tempo passato. Non un tempo qualsiasi, ma quello che ha segnato il definitivo passaggio dal vecchio mondo contadino alla società moderna. Mentre racconta, nei suoi occhi intravvedo scorrere le scene descritte, come tanti fotogrammi di un film, e le sue grosse mani, appoggiate sul tavolo di legno massiccio, attribuiscono concretezza e forza a tutta la narrazione. Battista continua a vivere le situazioni che narra. Le immagini scorrono veloci durante il racconto: l’anziano “combattente” manifesta il desiderio di trasmettere molte cose, accadute durante un’intera esistenza, in poco tempo, quello di un incontro pomeridiano. Mentre parla, rivive con affetto il suo rapporto con il papà, prima ancora con il nonno, anch’essi mulattieri e carrettieri, dai quali ha appreso i primi rudimenti del mestiere e poi i tanti segreti di un’attività non facile, quella dei trasporti locali, abbinata all’esercizio del commercio e alla formazione di una propria clientela. Rivede le mandrie dei bergamini transitare sulla cavalcatoria fuori casa, dirette in primavera avanzata verso l’alpeggio della Costa del Palio, mentre in autunno di ritorno alla Bassa: l’abbaiare dei cani, l’inconfondibile suono dei campanacci, i richiami decisi dei bergamini, il muggito delle vacche,… non sono solo lontani ricordi, ma costituiscono un bagaglio culturale ed esperienziale di prim’ordine. Di più: con i suoi muli ripercorre gli antichi sentieri di monte, diretto alle stalle dei piccoli allevatori per acquistare gli stracchini, che avrebbe poi depositato nella sua cantina di stagionatura, prima di rivenderli ai clienti, soprattutto alle botteghe: mentre gli altri mulattieri caricano sui rispettivi muli quattro piccole casse colme di stracchini, lui ne ha fatte costruire due più lunghe, capaci di contenere ciascuna sino a ventidue stracchini, da caricare sulle estremità laterali della sella, per ben bilanciare il carico complessivo, che può superare anche gli ottanta chilogrammi. E poi, ancora, ritorna, sempre con i muli, nei boschi sotto Fuipiano per caricare sacchi colmi di carbone di legna, preparato dai poiatèr del villaggio, per trasportarli sino alla Baràca, dove la sua famiglia ha costruito un deposito: durante l’estate, poi, li avrebbe trasportati col carro sino in città, per la vendita, ma Battista ha alcuni clienti anche a Lecco, soprattutto tra i magnà, per i quali il carbone di legna è sempre stato un prezioso combustibile. Ma la ràta de Almèn, sino a raggiungere la chiesa parrocchiale di San Salvatore, è temuta dai carrettieri: se i muli si fermano, non riescono più a ripartire per affrontare quella salita impegnativa col carico al traino. 



Battista ricostruisce diversi scenari, quando i trasporti avevano una caratterizzazione stagionale: durante l’inverno ritorna a movimentare soprattutto carbone, legna e fieno. Con l’aumento delle strade carrabili, ma soprattutto a seguito della diffusione dei cavi d’acciaio più resistenti realizzati con fili intrecciati, si diffondono le istallazioni temporanee di palorci e fili a sbalzo per l’esbosco della legna, venendo contestualmente meno la produzione del carbone. In autunno, invece, prevale il trasporto di sacchi di castagne e di noci. Battista è anche commerciante, quindi acquista e rivende i prodotti locali, ma a volte si occupa solo di fornire il servizio di trasporto. Il lavoro con muli e carri è caratterizzato ancora da tanta fatica fisica e i mulattieri sono innanzitutto formidabili camminatori, poiché tanto i muli quanto i carri servono per il trasporto delle merci, non dei conduttori. Al ritorno nel villaggio, poi, ci sono le varie comànde, soprattutto per la consegna alle famiglie di sacchi di farina gialla per la polenta e di riso. Poi, negli anni Cinquanta, giungono i primi robusti camion e, in pochi lustri, il sistema dei trasporti locali e del commercio subisce una radicale trasformazione. Battista tiene ancora per molti anni alcuni muli, che utilizza per il trasporto di materiali edili nelle aree rurali sprovviste di strade carrali. Come quando, verso la metà degli anni Cinquanta, viene chiamato da mio nonno, ol Jósef de Recüdì, per la fornitura di sabbia e cemento occorrenti per la ristrutturazione della casa sul monte: Battista, col suo camion OM Leoncino, trasporta il materiale a Saiàcom, dove giunge la strada carrale, per proseguire poi con i muli, risalendo un difficile sentiero scavato tra le rocce, sino a raggiungere Recüdì. Battista ricorda ancora con meraviglia e imbarazzo quella sera quando, arrivato presso l’insediamento rurale isolato all’ora convenuta, per ottenere il corrispettivo dovuto a conclusione del servizio, si ritrova seduto al tavolo della cucina al chiaro fioco di una semplice candela (lassù non era ancora arrivata l’energia elettrica): Jósef sfoglia e conta sul vecchio tavolo, davanti ai suoi occhi, il pacco di cartamoneta. A un certo punto interrompe improvvisamente la conta ed esce dalla stanza tenendo in mano l’unico candelì, lasciando Battista lì da solo, al buio, con i soldi distesi sul tavolo. L’anziano allevatore ritorna dopo pochi minuti: si era ricordato dove aveva lasciato il suo pegassì, che teneva regolarmente infilato nella grande tasca delle bràghe, ed era andato subito a riprenderlo. Jósef termina la conta del debito residuo e Battista si congeda soddisfatto per il credito onorato, dopo aver salutato anche una donna alta, magra e vestita di nero (la sorella del nonno), anch’essa presente all’incontro. In quella circostanza Jósef ha proposto a Battista di acquistare alcun grosse piante di castagno in prossimità della Stala de la Röda, che aveva programmato di tagliare. 



Il racconto di Battista è partecipato e si sviluppa attraverso una concatenazione di aneddoti, esperienze insolite per i tempi attuali, fatti curiosi e concreti che introducono l’ascoltatore in un altro mondo - che forse abbiamo superato troppo in fretta, ma ancora presente sotto la superficie del nostro vissuto attuale - dal quale tutti quanti proveniamo e al quale non possiamo che essere grati. Sono state quelle persone, come Battista, Carlì, Josef e migliaia di altri valligiani nati nella prima metà del secolo scorso – molti dei quali colpiti dalla tragica pandemia in corso - a piantare il seme del progresso attuale, pur essendo essi rimasti profondamente e intimamente connessi all’impianto formativo originario. Ho lasciato che fosse Battista a condurre il discorso, quale “padrone di casa” e primo attore della scena villica: la sottolineatura del contesto narrativo con toni di voce solenni, la teatralità dei gesti, le espressioni mutevoli del volto e la franchezza espositiva nel conferire particolare rilievo e parole e situazioni, l’uso frequente di figure retoriche, ma soprattutto la sua partecipazione emotiva nei confronti degli eventi descritti, collocano Battista in un tempo che non è più solo quello presente, ma abbraccia consapevolmente tutta la parabola della sua esistenza. Il nostro colloquio dura ormai da quasi tre ore. La casa di Battista è aperta e meta di altre visite. Anche per noi è giunto il momento del congedo. Ci salutiamo con l’impegno di ritrovarci presto. Scatta lo scambio degli omaggi: io gli consegno il libro “Carbonai e boscaioli” prodotto dal Centro Studi Valle Imagna, mentre Battista mi omaggia una vecchia ràsga de fèr e ü cordöl ancora nuovo, avvolto sulla sua bobina. 
 – L’è ü cordöl che l’và bé per legà i tò àsegn!... - mi dice convinto. 
C’è da credergli, data la sua esperienza di lungo corso con i quadrupedi. 
 Elena sua moglie conclude: 
 - Quande che e m’ga sarà piö nótre, chi gh’è bù de contà sö amò töcc s-cì laùr?...


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